«Deve essercene più di uno. Altrimenti non potremmo vivere» disse il direttore.

«È inutile augurarselo. Ce n'è uno solo».

«Le dico che deve essercene un altro. L'altro ieri sono salito in quello che c'è all'asse e ho visto che, al posto di un complesso di macchinari perfettamente funzionanti per purificare l'aria e inviarla nelle diverse parti della stazione, c'era soltanto una giungla di erbacce. E quelle erbacce, Mr. Channing, sembravano li da anni. Dove sono finite le macchine per purificare l'aria?»

Channing ascoltò l'ultima parte del discorso di Burbank con il mento a mezz'asta. Sarebbe bastato un soffio per stenderlo a terra.

«Ho mandato qualche operaio a togliere le erbacce. Intendo rimpiazzare i macchinari per l'aria non appena potrò farmi mandare dalla Terra il materiale nuovo».

Channing riuscì a battere le palpebre. Fu un grosso sforzo. «Ha ordinato agli operai di buttar via le erbacce...» ripeté, stordito. «Le erbacce...»

Per un minuto vi fu silenzio. Burbank studiava Channing come se fosse una statua... e infatti era impietrito.

«Channing, cosa le succede...» cominciò Burbank. Il suono della sua voce strappò Channing dal trauma.

Balzò in piedi. Girò sui tacchi e gridò ad Arden: «Corri alla telescrivente. Di che carichino tutti i serbatoi d'ossigeno che possono sulla nave più veloce che hanno! E che vengano qui a precipizio! Di' che imbottiscano di gavanol il pilota e l'equipaggio e che non risparmino energia! Sbrigati!»

Arden corse fuori.

«Burbank, cosa credeva che fosse un impianto per l'aria?» chiese bruscamente Channing.

«Mah... non è un macchinario per la purificazione?» chiese stupito il direttore.

«Che macchina purificatrice può esserci meglio dell'erba?» urlò Channing.

«Erbe, erbacce, fiori, alberi, alfalfa, grano, tutto quello che cresce e usa clorofilla. Noi respiriamo ossigeno ed esaliamo anidride carbonica. Le piante assorbono anidride carbonica e liberano ossigeno. Un impianto per l'aria è fatto... di piante! È un tipo specializzato d'erbasega marziana, tutta clorofilla. Noi respiriamo ossigeno ed esaliamo anidride carbonica. Le piante assorbono l'aria morta e la rivitalizzano. E lei ha battuto fuori le erbacce Channing sbuffò, furioso. «Abbiamo impiegato anni per far crescere quella pianta a dovere. Funzionava così bene che non c'era neppure bisogno dei segnalatori di anidride carbonica. L'equilibrio era così perfetto che da tre o quattro anni nessuno li ha più attivati. Erano soltanto un'altra fonte di spese inutili. A parte le ispezioni mensili, quella camera non veniva nemmeno aperta, tanto è efficiente l'erbasega marziana. Adesso, Burbank, stiamo perdendo l'ossigeno!»

Il direttore impallidì. «Non lo sapevo», disse.

«Bene, ora lo sa. Monti sul suo cavallo bianco e faccia qualcosa. O almeno, Burbank, non mi venga fra i piedi mentre io faccio qualcosa».

«Le dò carta bianca», disse Burbank, in tono rassegnato.

Channing lasciò l'ufficio del direttore e si precipitò nel laboratorio di chimica. «Quanto clorato, nitrato, solfato di potassio e altri composti contenenti ossigeno avete?» chiese. «Inclusi l'ossido di mercurio, l'acqua di scorta e qualunque altra cosa che ci dia ossigeno, se la scomponiano».

Vi fu un'attesa di dieci minuti, mentre gli addetti al laboratorio chimico facevano precipitosamente l'inventario.

«Bene», disse Channing. «Cominciate a scomporre tutto quanto. Raccogliete nei contenitori tutto l'ossigeno che potete. Precedenza assoluta. Sacrificate qualunque cosa, anche importante, se può facilitare la produzione dell'ossigeno. Dio sa che non è neppure la metà di quello che serve... neppure un decimo. Comunque, tentate».

Channing lasciò il laboratorio di chimica e corse in quello d'elettronica. «Jimmie» urlò, «prendi un paio di recipienti di pietra e metti in funzione un apparecchio per l'elettrolisi. Butta nello spazio l'idrogeno e raccogli l'ossigeno. L'acqua, voglio dire. Usa l'acqua del rubinetto».

«Sì, ma...»

«Jimmie, se non respiriamo, a cosa ci serve l'acqua da bere? Ti dirò io quando smettere».

«Okay, Doc», disse Jimmie.

«E stai a sentire. Appena comincerà a funzionare, metti in attività un indicatore d'anidride carbonica e ogni ora riferiscimi la percentuale. Chiaro?»

«Immagino che sia successo qualcosa all'impianto dell'aria, no?»

«Non funziona», disse seccamente Channing. Lasciò lo sconcertato Jimmie e andò nella sala controllo del raggio. Jimmie continuò a rimuginare. Come diavolo potevano smettere di funzionare le piante dell'aria a meno che fossero... morte? Jimmie smise di rimuginare e cominciò a far funzionare furiosamente l'apparecchio per l'elettrolisi.

Channing scopri che gli uomini nella sala controllo del raggio erano preoccupati e a disagio. La splendida coordinazione che faceva di loro i migliori esperti del campo stava svanendo. Quello era un lavoro che richiedeva un perfetto dominio dei movimenti, una percezione acutissima e straordinarie facoltà di ragionamento. La carenza di ossigeno, a quel livello, stava già facendo sentire i suoi effetti.

«Sentite, amici, siamo in un guaio. Fino a nuovo ordine, fate turni di cinque minuti. Dobbiamo tirare avanti per una trentina d'ore. Se diventasse difficile, fate turni di tre minuti. Ma, ragazzi, tenete centrati quei raggi fino a quando crollerete!»

«Li terremo in funzione, a costo di chiamare quassù le nostre mogli perché continuino loro al nostro posto», disse un uomo. «Cos'è successo?»

«L'impianto dell'aria non funziona. Stiamo perdendo ossigeno. Ne sta arrivando un carico dalla Terra e sarà qui fra trenta ore. Ma voi avete il compito di tenerci in contatto con il resto del sistema. Se non ce la farete, potremo chiedere aiuto fino a che gelerà l'inferno... e nessuno ci sentirà!»

«Li terremo in funzione», disse un ometto che doveva sedere su uno sgabello altissimo per arrivare ai comandi.

Channing guardò fuori dalla grande cupola di plexiglas sfaccettato che copriva un'intera estremità di Venus Equilateral. «Qui entrano ed escono i messaggi», mormorò pensieroso. «L'altra estremità ci porta le cose che ci tolgono l'aria».

Channing alludeva alla grande camera di compensazione all'estremità opposta della stazione, a tre miglia di distanza.

Al centro della cupola c'era un telescopio. Manteneva nel collimatore la stella polare, per puntare esattamente la stazione verso il nord terrestre. Intorno alla periferia della cupola, rivolti verso lo spazio, erano seduti gli operatori del raggio; sotto ognuno di loro c'era un riflettore parabolico di trenta metri, all'esterno della cupola e sotto l'orlo della conca trasparente. I riflettori lanciavano i segnali interplanetari attraverso lo spazio su raggi stretti e gli uomini, spesso anticipando i capricci delle distorsioni spaziali, li tenevano centrati sul minuscolo bersaglio lucente in quel mare di stelle.

Sopra la testa di Channing, le stelle brillavano. L'uomo, così piccolo, che opponeva la sua volontà a quel vuoto mostruoso. L'uomo, che aveva bisogno dell'atmosfera. «'La Natura aborrige il vuoto', diceva Spinoza», gemette Channing. «Sciocchezze! Se la natura aborrisce il vuoto, perché ne ha fatto tanto?»

 

Arden Westland entrò nell'alloggio senza bussare. «Darei il mio braccio destro per una sigaretta», disse, indicando sopra il gomito con la mano sinistra.

«No-o», disse Channing. «Non possiamo bruciare ossigeno».

«Lo so. Sono stanca, ho freddo e sto male. Non puoi far niente per una signora?»

«Non quello che vorrei», rispose Channing. «Non posso essere di grande aiuto. Abbiamo isolato tutti i locali inutili con i portelli stagni. Abbiamo elettrolizzato l'acqua, abbiamo arrostito il clorato di potassio e tutto quel che possiamo per ricavare ossigeno. C'è un gruppo di uomini che sta cercando di assorbire il contenuto di anidride carbonica. E stiamo perdendo la battaglia. Certo, ho sempre saputo che non avremmo potuto rifornire la stazione con quelle poche scorte che abbiamo a disposizione. Ma alla fine vinceremo noi. Il nostro microcosmo riceverà fra qualche ora un'iniezione che ristabilirà l'equilibrio».

«Non capisco perché non fossimo preparati per questa emergenza», disse Arden.

«La stazione è ben equilibrata. C'è abbastanza gente e abbastanza spazio per farne un piccolo mondo tutto nostro. Possiamo creare un equilibrio pressoché perfetto. Alle imperfezioni rimedia l'afflusso dei rifornimenti in arrivo dal sistema. Prima che Burbank alterasse l'equilibrio, potevamo tirare avanti in eterno, usando la purificazione naturale dell'aria e dell'acqua. Coltivavamo un po' di verdure e avevamo qualche animale da carne che ci forniva latte e bistecche. L'energia che fa funzionare Venus Equilateral è fornita dalla pila di uranio. Energia atomica, prego. Perché avremmo dovuto addossarci un mucchio di metri cubi di provviste che avrebbero occupato il posto necessario al mantenimento dell'equilibrio? Non siamo ridotti poi così male. Sopravviveremo, anche se saremo tutti stanchi e irritati e sbadiglianti».

«E quando sarà finita?»

«Ristabiliremo l'equilibrio. E allora ci metteremo tranquilli. Continueremo dal punto dove siamo stati interrotti», disse Don.

«Non proprio. Venus Equilateral è stata scottata. Saremo più duri e meno tolleranti con gli estranei. Se prima eravamo un'azienda chiusa, dopo saremo peggio di un barattolo di caffè sotto vuoto spinto. E il primo che verrà a darci fastidio ne sentirà di tutti i colori».

 

Tre supernavi di linea apparvero allo scadere della trentunesima ora. Girarono intorno alla stazione, segnalando con gli eliografi. Si avvicinarono all'estremità della camera stagna e si agganciarono. Il portellone si apri e le figure in tuta sciamarono sulla piattaforma d'atterraggio sud. Un fiume di grossi serbatoi d'ossigeno venne portato all'interno, fino al quarto livello, dove s'erano radunati tutti gli abitanti della stazione.

Da una delle navi arrivò un'orda di uomini che portavano enormi cassette quadrate di terra e di verdeggiante erbasega.

Per sei ore, Venus Equilateral fu teatro di un'attività frenetica, furiosa. L'aria morta fu espulsa dalle zone invase, e in ogni locale si senti il sibilo dei serbatoi d'ossigeno. Poco a poco la gente lasciò il quarto livello e ritornò al proprio posto. La stazione echeggiò nuovamente di risate e il lavoro, interrotto per mancanza di aria respirabile, riprese allegramente.

Le supernavi di linea ripartirono. Ma non senza portarsi via un souvenir. Francis Burbank parti con loro. L'ordine di destituzione era arrivato con la prima nave, e la seconda aveva portato la nomina di Don Channing a direttore di Venus Equilateral.

Felicissimo, lui rientrò nell'ufficio del direttore. Era carico di tutta la roba che aveva portato via poche settimane prima. Questa volta veniva per restare.

Arden entrò in ufficio dietro di lui. «Di nuovo a casa?» domandò.

«Sicuro». Channing le rivolse un gran sorriso. «Apri lo schedario B, per favore, ed estrai un recipiente della mia bevanda preferita».

«Sicuro», disse Arden.

Echeggiò un grido di gioia. «Tira fuori quattro bicchieri», disse qualcuno dietro di lei. Erano Walt Franks e Joe.

Fu Arden a proporre il brindisi. «A un'azienda chiusa!» disse.

Vuotarono i bicchieri.

Arden si avvicinò a Don e gli prese il braccio. «Visto?» disse, guardandolo negli occhi. «Non siamo più gli stessi. Le cose sono cambiate da quando Burbank è venuto e se ne è andato. No?»

«Sicuro», rise Channing. «E adesso che sei la mia segretaria, non sta bene che mi sorrida così. La gente penserà male».

«Cosa sta farneticando?» chiese Joe.

Channing rispose: «È considerato molto disdicevole che una segretaria faccia la corte al principale. Pensate a quel che dirà la gente; pensate a sua moglie e ai suoi figli».

«Ma tu non ce l'hai».

«La gente?» chiese candido Channing.

«No, scimmione... moglie e figli».

«Può darsi», disse Don, annuendo. «Ma comunque è di pessimo gusto che una segretaria...»

«Nessun uomo può permettersi di usare un tono simile con me!» scattò Arden, con una luce nuova negli occhi. «Mi dimetto! Così non dirai più che sono una segretaria!»

«Ma, Arden, tesoro...»

Arden si abbandonò fra le braccia di Channing e strizzò l'occhio a Walt e a Joe. «Io», annunciò, «sono stata promossa!»

 

Il negozio d'armi

The Weapons Shop

di A.E. Van Vogt

Astounding, dicembre

 

A.E. van Vogt incominciò quella che divenne poi la serie dei Negozi d'armi con L'altalena (vedere il 3° volume di queste antologie), e in quel romanzo breve diede al mondo fantascientifico una delle sue frasi storiche: «Il diritto di acquistare armi è il diritto di essere liberi». I Negozi d'Armi rappresentano forze che agiscono dietro le quinte e che periodicamente cercano di equilibrare e talvolta di sconfiggere le forze dominatrici della società in cui si svolge l'azione. Qui van Vogt (come Heinlein in gran parte della sua narrativa) ci presenta una soluzione libertaria dei problemi della burocrazia centralizzata e del governo imperiale. E anche se può essere una soluzione semplicistica, in questo caso è ricca del «sense of wonder» per il quale va famoso van Vogt.

La serie uscì poi in volume, con i titoli The Weapon Makers (Le armi di Isher, 1946) e The Weapon Shops of Isher (Hedrock l'immortale, 1951).

 

(Non posso sentire la frase «fi diritto di acquistare armi è il diritto di essere liberili senza provare l'impulso di discutere. So che la libertà muore se soltanto il governo può far uso delle armi, ma questo è vero solo se i governati vengono privati della certezza del diritto. E l'alternativa? Quando le armi sono accessibili a ogni delinquente, a ogni idiota, a ogni sedicente liberatore e a ogni guerrigliero? Vediamo i risultati un po' dovunque, di questi tempi, quando basta piazzare una bomba da qualche parte o sparare a tradimento contro un individuo disarmato per diventare un eroe. - I.A.)

 

Il villaggio, di notte, offriva un quadro stranamente atemporale. Fara camminava soddisfatto a fianco della moglie, per la strada. L'aria era inebriante come il vino, e lui pensava vagamente all'artista che era venuto dalla Città Imperiale e aveva realizzato quello che i telestati chiamavano — Fara ricordava bene la frase — «un dipinto simbolico, rievocante una scena dell'era elettrica di settemila anni or sono».

Fara ci credeva ciecamente. La strada, davanti a lui, con i giardini privi di erbacce e curati automaticamente, i negozi circondati dai fiori, i perpetui marciapiedi solidi ed erbosi e i lampioni che irradiavano luce da ogni poro della loro struttura... era un riposante paradiso dove il tempo s'era fermato.

Ed era come far parte della vita che la riproduzione di quella scena pacifica, compiuta dal grande artista, ora aveva portato nella collezione personale dell'imperatrice. Lei l'aveva elogiata, e naturalmente l'artista tre volte fortunato l'aveva immediatamente e umilmente pregata di accettarla.

Che gioia doveva essere poter offrire un omaggio personale alla gloriosa, alla divina, alla serenamente benigna e amabile Innelda Isher, millecentottantesima regnante della sua dinastia.

Mentre camminava, Fara si girò a metà verso la moglie. Nella luce fioca del lampione più vicino, il viso mite e ancora giovanile della donna era smarrito nell'ombra. Fara sussurrò, attenuando d'istinto la voce per armonizzarla con le sfumature pastello della notte:

«Ha detto... la nostra imperatrice ha detto che il nostro piccolo villaggio, Glay, racchiude tutta la naturalezza e la dolcezza che costituiscono le qualità migliori del suo popolo. Non ti sembra un pensiero meraviglioso, Creel? Deve essere una donna straordinariamente comprensiva. Io...».

S'interruppe. Erano arrivati a una strada laterale e a una cinquantina di metri di distanza, lungo quella via, c'era qualcosa che...

«Guarda!» esclamò Fara con voce rauca.

Tese il braccio rigido e puntò l'indice verso un'insegna che splendeva nella notte, un'insegna che diceva:

 

ARMI MAGNIFICHE

IL DIRITTO DI ACQUISTARE ARMI È

IL DIRITTO DI ESSERE LIBERI

 

Fara provò una strana sensazione di vuoto mentre fissava l'insegna sfolgorante. Vide che altri abitanti del villaggio si stavano affollando. Alla fine disse, roco: «Ho sentito parlare di questi negozi. Sono posti infami, e il governo dell'imperatrice prenderà provvedimenti, uno di questi giorni. Li costruiscono in fabbriche clandestine e poi li trasportano interi in cittadine come la nostra, e li piazzano così, sfidando senza vergogna i diritti della proprietà. Questo un'ora fa non c'era».

Il viso di Fara s'indurì. La sua voce aveva un tono aspro, quando disse: «Creel, torna a casa».

Fara si stupì nel vedere che Creel non s'era mossa immediatamente. Da quando erano sposati, lei aveva sempre avuto la simpatica abitudine di obbedire, il che aveva reso meravigliosa la loro coabitazione. Vide che adesso lei lo guardava con gli occhi sgranati, paralizzata da una timida preoccupazione. Creel disse: «Fara, che cosa vuoi fare? Non starai pensando di...»

«Torna a casa!» La paura della moglie fece affiorare, per reazione, il suo spirito più intransigente. «Non permetteremo che questa mostruosità contamini il nostro villaggio. Pensa...» La sua voce tremò a quel pensiero spaventoso. «Pensa, questa comunità pacifica, che abbiamo deciso di serbare in perpetuo come nel quadro che l'imperatrice conserva nella sua galleria, contaminata, corrotta da questa... questa cosa... Ma non lo permetteremo; è tutto».

La voce di Creel gli giunse sommessa dalla semioscurità dell'angolo della via: e adesso non aveva più traccia di timidezza. «Non fare gesti avventati, Fara. Ricorda che non è il primo edificio nuovo a Glay, da quando è stato dipinto il quadro».

Fara tacque. Era un'abitudine che non approvava in sua moglie, la mania di ricordargli inutilmente le realtà sgradevoli. Sapeva esattamente quel che intendeva dire. La gigantesca, tentacolare società delle Officine Riparazioni Automatiche Motori Atomici era arrivata, ai sensi della legge statale, con quel palazzo vistoso, nonostante il parere contrario del consiglio comunale... e aveva già portato via all'officina di riparazioni di Fara metà della clientela.

«Questo è diverso!» ringhiò alla fine Fara. «Innanzi tutto, la gente si accorgerà prima o poi che quei nuovi riparatori automatici lavorano piuttosto male. In secondo luogo, quella è concorrenza leale. Ma questo negozio d'armi è una sfida a tutti i principii morali che rendono così bella la vita dei sudditi della dinastia degli Isher. Guarda quella scritta ipocrita: 'Il diritto di acquistare armi...' Ahhh! Ahhh!»

Poi s'interruppe e ordinò: «Torna a casa, Creel. Faremo in modo che non vendano armi in questa cittadina!»

Seguì con lo sguardo la figura snella della donna che si allontanava nell'ombra. Creel stava attraversando la strada quando un pensiero colpì Fara. Le gridò: «E se vedi nostro figlio oziare all'angolo di qualche via, portalo a casa. Deve imparare a non stare in giro fino a così tardi».

La figura di Creel, nell'ombra, non si voltò, e dopo averla seguita per un momento con lo sguardo mentre procedeva contro lo sfondo un po' fioco dei lampioni, Fara girò sui tacchi e si avviò a passo svelto verso il negozio. La folla ingrossava di minuto in minuto e la notte vibrava di voci concitate.

Senza dubbio, era l'evento più clamoroso che fosse mai accaduto nel villaggio di Glay.

 

L'insegna del negozio d'armi, vide, era del tipo a illusione di normalità. Da qualunque punto di vista, aveva l'impressione di vederlo di fronte. Quando finalmente Fara si soffermò davanti alla grande vetrina, le parole s'erano ripiegate contro la facciata e lo fissavano immobìli.

Fara arricciò di nuovo il naso, sdegnato per il significato di quello slogan, e poi dimenticò l'insegna. Nella vetrina c'era un'altra scritta. Diceva:

 

LE MIGLIORI ARMI A ENERGIA

DELL'UNIVERSO CONOSCIUTO

 

Una scintilla d'interesse scoccò in Fara. Guardò quell'esposizione di armi luccicanti, affascinato nonostante tutto. C'erano armi di ogni grandezza, dalle minuscole pistole a indice fino ai fucili da caccia grossa. Erano di ogni tipo di sostanza, leggere, dure, ornamentali: glasseina brillante, plastica Ordina colorata ma opaca, berillio verdeggiante al magnesio. E altre ancora.

Alle spalle di Fara, un uomo disse: «È proprio sul terreno di Lan Harris. Che bello scherzo per quel vecchio briccone. Chissà come strillerà!»

Le risa soffocate di parecchi uomini formavano un bizzarro grumo sonoro nell'aria pura e tiepida. E Fara notò che l'uomo aveva detto la verità. Il negozio d'armi aveva un fronte d'una dozzina di metri, e occupava il centro del verde giardino dello spilorcio Harris.

Fara aggrottò la fronte. Furbi come diavoli, quelli del negozio d'armi, a scegliere la proprietà dell'uomo più detestato della cittadina, a impadronirsene dando a tutti un sottile brivido di piacere. Ma proprio perché era così ingegnoso, era necessario che il trucco non sortisse l'effetto voluto.

Stava ancora facendo smorfie d'ansia quando vide la figura corpulenta di Mel Dale, il sindaco. Fara lo raggiunse in fretta, si toccò rispettosamente la tesa del cappello e chiese: «Dov'è Jor?»

«Qui». La guardia del villaggio si fece largo tra la piccola folla. «Avete un piano?» chiese.

«Il piano è uno solo», disse coraggiosamente Fara «Entri e li arresti».

 

Con grande sorpresa di Fara, i due uomini si guardarono in faccia e poi fissarono il suolo. La guardia rispose laconicamente; «La porta è bloccata. Abbiamo bussato e nessuno ha risposto. Volevo appunto proporre di lasciare tutto come sta fino a domattina».

«Assurdo!» Lo sbalordimento accrebbe l'impazienza di Fara. «Prendiamo una scure e abbattiamo la porta. Se indugiamo, incoraggeremo questa marmaglia a resistere. Non vogliamo tipi come loro nel nostro villaggio, neppure per una notte. Non è vero?»

Tutti quelli che gli stavano immediatamente intorno si affrettarono ad annuire, solidali. Troppo in fretta. Fara si guardò intorno sconcertato e vide che abbassavano gli occhi sotto il suo sguardo fermo. E pensò: «Hanno tutti paura, e non vogliono agire». Prima che potesse parlare, l'agente Jor disse: «Immagino che non abbia mai sentito parlare di queste porte e di questi negozi. A quanto si dice, è impossibile fare un'irruzione con la forza».

Trasalendo, Fara si rese conto che avrebbe dovuto agire personalmente. Disse: «Andrò a prendere la tagliatrice atomica nella mia officina. Così li sistemeremo. Ho la sua autorizzazione, signor Sindaco?»

Nella luce che irradiava dalla finestra del negozio d'armi, l'uomo grasso sudava visibilmente. Tirò fuori un fazzoletto e si asciugò la fronte. Poi disse: «Forse sarebbe meglio se chiamassi il comandante della guarnigione imperiale, a Ferd, e chiedessi a lui».

«No!» Fara riconobbe al volo quel tentativo di eludere il problema. Si sentiva d'acciaio: aveva la certezza che ci fosse in lui tutta la forza del villaggio. «Dobbiamo agire noi! Molte altre comunità hanno lasciato che costoro si insediassero perché non hanno agito con decisione. Dobbiamo resistere fino all'estremo. A partire da questo momento. Dunque?»

Lo «Sta bene!», del sindaco fu poco più forte di un sospiro. Ma a Fara non occorreva altro.

Annunciò la sua intenzione alla folla e poi, mentre si faceva largo tra la ressa, vide suo figlio, insieme ad altri giovani, che fissava la vetrina.

Fara chiamò: «Cayle, vieni ad aiutarmi a prendere la macchina». Cayle non si voltò neppure, e Fara corse via, fremendo. Che sciagurato! Un giorno o l'altro avrebbe dovuto decidersi a intervenire con fermezza. O si sarebbe trovato fra le mani un poco di buono.

 

L'energia fluiva con silenziosa regolarità. Non emetteva crepitìi né scintille. Brillava d'una tenera, purissima luce bianca, quasi accarezzando i pannelli metallici della porta... ma non cominciava neppure a intaccarli.

Di minuto in minuto, l'ostinatissimo Fara rifiutava di credere a quell'insuccesso inaccettabile, e faceva scorrere l'energia sconfinatamente potente su quel muro impenetrabile. Quando alla fine si decise a spegnere la macchina, sudava abbondantemente.

«Non capisco», ansimò. «Nessun metallo dovrebbe essere in grado di resistere a un flusso costante d'energia atomica. Persino i rivestimenti di metallo duro nell'interno della camera di scoppio d'un motore assorbono le esplosioni in quella che viene chiamata una serie infinita, in modo che ciascuna possa riposare. E questa è la teoria, ma in pratica il funzionamento costante cristallizza l'intera lastra in pochi mesi».

«È come ha detto Jor», fece il sindaco. «Questi negozi d'armi sono... qualcosa di grosso. Si diffondono in tutto l'impero e non riconoscono l'imperatrice».

Fara strusciò i piedi sull'erba robusta, sconvolto. Quei discorsi non gli andavano. Sembravano... sacrileghi. E per giunta erano assurdi. Doveva essere così. Prima che potesse parlare, un uomo accanto a lui disse: «A quanto ho sentito, la porta si apre solo per quelli che non possono far niente di male a chi c'è dentro».

Quelle parole scossero Fara, strappandolo allo stordimento. Per la prima volta si accorse che il suo insuccesso aveva avuto un effetto psicologico spiacevole. Disse, bruscamente: «È ridicolo! Se esistessero porte così, le avremmo tutti. Noi...»

Il pensiero che bloccò le sue parole fu la constatazione improvvisa che lui non aveva visto nessuno tentare di aprire la porta: e dato che tutti, lì intorno, erano così riluttanti, era perfettamente possibile che...

Si fece avanti, afferrò il pomello e tirò. La porta si apri con una leggerezza innaturale, dandogli per un attimo la sensazione che il pomello si fosse staccato e gli fosse rimasto in mano. Con un'esclamazione soffocata, Fara spalancò la porta.

«Jor!» urlò. «Entri!»

La guardia fece un movimento irregolare, alterato dal desiderio di essere prudente, e seguito dalla rivelazione fulminea che non poteva tirarsi indietro di fronte a tanta gente. Si lanciò goffamente verso la porta aperta... e la porta gli si richiuse in faccia.

 

Istupidito, Fara si guardò la mano ancora contratta. E poi, un lento fremito d'orrore gli percorse i nervi. Il pomello s'era... ritirato. Si era distorto, era diventato viscoso, amorfo, ed era sfuggito alle sue dita convulse. Persino il ricordo di quella sensazione brevissima gli dava un senso di anormalità.

Si accorse che la folla l'osservava silenziosa e intenta. Allungò di nuovo la mano verso il pomello, questa volta con minor zelo; e solo la consapevolezza improvvisa della propria riluttanza lo esasperò quando il pomello non girò, non cedette minimamente.

La sua decisione ritornò, intatta, portando un pensiero. Fara rivolse un cenno alla guardia. «Stia indietro, Jor, mentre io apro».

L'uomo arretrò, ma fu inutile. Ed era inutile anche tirare. La porta non voleva saperne di aprirsi. Tra la folla, un uomo disse, enigmaticamente: «Aveva deciso di lasciarti entrare, poi ha cambiato idea».

«Che assurdità stai dicendo?» esclamò furioso Fara. «La porta ha cambiato idea? Sei ammattito? Una porta non ha intelligenza».

Ma un'ondata improvvisa di paura gli fece tremare la voce. Fu l'apprensione subitanea a dargli un coraggio che trascendeva la sua abituale prudenza. Scuotendosi. Fara fronteggiò il negozio.

La costruzione torreggiava sotto il cielo notturno, luminosa come il giorno, enormemente lunga e larga, aliena, minacciosa, non più facilmente espugnabile. Fara si chiese, irrequieto, che cosa avrebbero fatto i soldati dell'imperatrice se fossero stati chiamati in causa. E all'improvviso — in un crudo, fulmineo barlume di atroce possibilità — ebbe la sensazione che persino loro non avrebbero potuto far nulla.

Di colpo. Fara inorridì, perché un'idea simile era entrata nella sua mente. La scacciò e disse, frenetico: «La porta si è aperta per me, una volta. Si aprirà ancora».

Si aprì, infatti. Molto semplicemente. Dolcemente, senza resistenza, con la stessa sensazione d'imponderabilità, la strana, sensibilissima porta seguì la pressione delle sue dita. Oltre la soglia c'era la semioscurità, un grande locale buio. Sentì la voce di Mel Dale dietro di lui. Il sindaco stava dicendo: «Fara, niente stupidaggini. Cosa vuol fare lì dentro?»

Vagamente stupito, Fara si accorse che aveva varcato la soglia. Si voltò a guardare quelle facce indistinte. «Ma...» esordi, confuso. Poi si scosse e aggiunse: «Ma comprerò un fucile naturalmente».

La genialità ingegnosa implicita nella propria risposta lasciò Fara abbagliato per un altro mezzo minuto. Poi l'esaltazione dileguò lentamente, quando si trovò nell'interno fiocamente illuminato del negozio d'armi.

All'interno c'era un silenzio preternaturale. Neppure un suono giungeva dalla notte che s'era lasciato alle spalle: e lo colpi il pensiero sconvolgente che quelli del negozio potevano ignorare la presenza della folla all'esterno.

Fara avanzò, adagio, sul pavimento ruvido che smorzava completamente il suono dei suoi passi. Dopo un momento, i suoi occhi si abituarono all'illuminazione fioca, che sembrava un riflesso delle pareti e del soffitto. Vagamente, si era aspettato qualcosa che trascendesse la normalità: e quella comune illuminazione atomica agi come un tonico sui suoi nervi tesi.

Si scosse, rabbiosamente. Perché li dentro avrebbe dovuto esserci qualcosa di superiore? Si stava lasciando suggestionare come quegli idioti là fuori.

Si guardò intorno con crescente sicurezza. Il negozio sembrava molto comune. L'arredamento era quasi modesto. C'erano vetrine alle pareti e piazzate qua e là nel locale, belle e scintillanti, ma non eccezionali... non erano molte. Solo alcune dozzine. E poi c'era una porta a due battenti, molto ornata, che dava nel retrobottega...

Fara cercò di tener d'occhio quella porta anche mentre esaminava le vetrinette. In ognuna c'erano tre o quattro armi, montate o sistemate negli astucci o nelle fondine.

All'improvviso, la vista di quelle armi cominciò a emozionarlo. Dimenticò di sorvegliare la porta, colpito da un'ispirazione: doveva prendere una di quelle armi e poi, appena fosse arrivato qualcuno, lo avrebbe costretto a uscire, e Jor l'avrebbe arrestato e...

Dietro di lui, una tranquilla voce maschile chiese: «Vuole acquistare un fucile?»

Fara si girò trasalendo. Per un momento, la rabbia lo invase: il suo piano era stato rovinato dall'arrivo del commesso.

Ma la rabbia svani quando vide che il nuovo venuto era un bell'uomo dai capelli argentei, più vecchio di lui. E questo era sconcertante. Fara nutriva un rispetto immenso e automatico per i vecchi: e per un lungo istante rimase immobile a bocca aperta. Finalmente disse, incerto: «Sì, si, un fucile».

«Per cosa le serve?» chiese l'uomo senza alzare la voce.

Fara lo fissò, muto e stordito. Era accaduto troppo in fretta. Avrebbe voluto infuriarsi. Avrebbe voluto dire a quegli individui cosa pensava di loro. Ma l'età del venditore gli bloccava la lingua e lo confondeva. Riuscì a parlare solo con uno sforzo di volontà.

«Per la caccia». Quella risposta plausibile gli ridiede un po' di sicurezza. «Sì, appunto per la caccia. C'è un lago, più a nord», continuò più disinvolto, «e...»

S'interruppe con una smorfia, turbato dalla propria insincerità. Non era disposto a una prevaricazione tanto sfacciata. Disse, seccamente: «Per la caccia».

Fara s'era ripreso. Adesso odiava quell'uomo che l'aveva sconcertato completamente. Con gli occhi accesi da un fuoco cupo guardò il vecchio aprire una vetrina e prendere un lucido fucile dai riflessi verdi.

Mentre l'uomo gli stava di fronte con il fucile in mano, Fara pensò, torvo: «Molto ingegnoso, servirsi di un vecchio come prestanome». Era la stessa astuzia che li aveva indotti a scegliere la proprietà di Harris, lo spilorcio. In preda a una furia gelida, ferocemente deciso, Fara tese le mani verso il fucile, ma l'uomo lo tenne lontano dalla sua portata e disse: «Prima di permetterle di provarlo, i regolamenti dei negozi d'armi m'impongono di farle conoscere le circostanze nelle quali può acquistare un fucile».

Quindi avevano regolamenti privati. Che sistema di trucchi psicologici per impressionare i gonzi! Bene, parlasse pure, quel vecchio mascalzone! Appena lui, Fara, avesse avuto il fucile nelle mani, avrebbe messo fine a quell'ipocrisia.

«Noi fabbricanti d'armi», stava dicendo il venditore in tono blando, «abbiamo realizzato fucili che possono, entro la loro particolare portata, distruggere qualunque macchina, qualunque oggetto fatto di ciò che viene chiamato materia. Quindi, chiunque possiede una delle nostre armi è eguale, anzi superiore, a qualunque soldato dell'imperatrice. Ho detto 'superiore' perché ogni arma è il centro di un campo di forza che costituisce un perfetto schermo contro le energie distruttive immateriali. Lo schermo non offre la minima resistenza a clave o lance o proiettili o ad altri oggetti materiali; ma ci vorrebbe un piccolo cannone atomico per penetrare la superba barriera che crea intorno al suo proprietario.

«Lei capirà facilmente», continuò l'uomo, «che un'arma tanto potente non deve finire in mani irresponsabili. Perciò nessun'arma acquistata presso di noi può venire usata per un'aggressione o un omicidio. Nel caso del fucile da caccia, si può sparare soltanto alla selvaggina da penna e da pelo che di tanto in tanto includiamo negli elenchi esposti nelle nostre vetrine. Infine, un'arma non può venire rivenduta senza la nostra approvazione. È chiaro?»

Fara annuì in silenzio. In quel momento non riusciva a parlare. Quelle parole incredibili, immensamente stupide gli ronzavano ancora nella mente. Si chiese se doveva scoppiare a ridere o scagliare maledizioni contro l'uomo che insultava così clamorosamente la sua intelligenza.

Dunque, il fucile non doveva venire usato per uccidere o rapinare. Dunque, si poteva sparare soltanto a certa selvaggina da penna e da pelo. E in quanto al divieto di rivenderlo... bene, se lui l'avesse acquistato, e poi avesse fatto un viaggio di mille miglia e l'avesse offerto per due crediti a un ricco sconosciuto... chi l'avrebbe mai saputo?

O se avesse rapinato lo sconosciuto. O se gli avesse sparato. Come l'avrebbero scoperto, al negozio d'armi? Era così ridicolo che...

Si accorse che il venditore gli porgeva il fucile tenendolo per la canna. Lo prese, di scatto, e dovette lottare contro l'impulso di puntarlo direttamente contro il vecchio. Non doveva essere troppo precipitoso, pensò, teso. Chiese: «Come funziona?»

«Basta che prenda la mira e prema il grilletto. Forse vuole provarlo con il nostro bersaglio».

Fara spianò il fucile. «Sì», dichiarò trionfante. «E il bersaglio è lei. Adesso vada verso la porta, ed esca».

Poi alzò la voce. «E se qualcuno sta pensando di fare una sortita dal retrobottega, tengo sotto mira anche quella porta».

Rivolse un cenno nervoso al venditore. «Presto, si muova! O sparo! Giuro che le sparo».

L'uomo rimase freddo, imperturbabile. «Non dubito che sparerebbe. Quando abbiamo deciso di sintonizzare la porta per lasciarla entrare nonostante la sua ostilità, abbiamo tenuto conto della sua capacità di commettere un omicidio. Tuttavia, noi stiamo giocando in casa. Quindi farà bene a regolarsi. E si guardi alle spalle...»

 

Silenzio. Fara, con l'indice sul grilletto, restò immobile. Rammentava vagamente le cose che aveva sentito dire sul conto dei negozi d'armi: che avevano sostenitori clandestini in ogni distretto, che erano retti da un governo segreto e spietato, e che quando si finiva nelle loro grinfie, l'unica via d'uscita era la morte e...

Ma poi, finalmente, gli apparve nitida un'immagine mentale di lui, Fara Clark, padre di famiglia, devoto suddito dell'imperatrice, che se ne stava li in quel negozio semibuio e lottava contro un'organizzazione talmente enorme e minacciosa da... Doveva essere impazzito.

Però... ormai era li. Cercò d'imprimere coraggio ai suoi muscoli vacillanti. Disse: «Non riuscirà a imbrogliarmi fingendo che dietro di me ci sia qualcuno. Adesso raggiunga quella porta. Subito

Gli occhi impassibili del vecchio guardavano alle sue spalle. L'uomo chiese, senza alzare la voce: «Dunque, Rad, hai tutti i dati?»

«Quanto basta per una valutazione primaria», disse dietro Fara una voce giovane, baritonale. «Conservatore, tipo A-7. Buona intelligenza media, ma con uno sviluppo monarico tipico dei piccoli centri. Mentalità unilaterale, condizionata dalle scuole imperiali, presente in forma eccessiva. Estremamente onesto. Sarebbe inutile fare appello alla ragione. Un approccio emotivo richiederebbe un trattamento protratto. Non so perché dovremmo prenderci il disturbo. Lasciamo che viva la sua vita come vuole lui».

«Se crede», disse Fara, tremando, «che il trucco della voce basti a farmi voltare, è pazzo. Li c'è il muro sinistro della costruzione. So che non c'è nessuno».

«Sono favorevole, Rad», disse il vecchio, «all'idea di lasciarlo vivere la sua vita. Ma è stato lui ad aizzare la folla là fuori. Credo sia opportuno scoraggiarlo».

«Renderemo di dominio pubblico la sua visita», disse Rad. «E passerà il resto della vita a smentire l'accusa».

La fiducia di Fara nel fucile s'era attenuata tanto che, mentre ascoltava inquieto e sconcertato quella conversazione incomprensibile, lo dimenticò completamente. Apri la bocca ma, prima che potesse parlare, il vecchio intervenne deciso. «Credo che una piccola emozione potrebbe avere un effetto a lungo termine. Mostragli il palazzo».

Il Palazzo! Quella parola sorprendente strappò Fara alla breve paralisi. «Stia a sentire», esordì, «adesso capisco che mi ha mentito. Il fucile non è carico. È...»

Gli mancò la voce. Ogni muscolo del suo corpo s'irrigidì. Stralunò gli occhi come un pazzo. Nelle sue mani non c'era nessun fucile.

«Oh. ma...» attaccò, stravolto. E s'interruppe di nuovo. La sua mente si dibatteva, sbilanciata. Con uno sforzo tremendo, lottò contro la sensazione di vertigine, e finalmente pensò, tremando: qualcuno doveva avergli sottratto il fucile. E questo voleva dire... dietro di lui c'era qualcuno. La voce non era un effetto meccanico. Chissà come, avevano...

Fece per voltarsi... e non ci riuscì. In nome di... Lottò, forzando i muscoli. E non riuscì a muoversi, neppure a...

Il negozio stava diventando stranamente buio. Era difficile scorgere il vecchio e... Avrebbe urlato, se avesse potuto. Perché il negozio d'armi era scomparso. Era...

Era nel cielo sopra a una città immensa.

Era nel cielo, e sotto di lui non c'era nulla, intorno a lui non c'era nulla, soltanto l'aria e l'azzurro dell'estate, e la città era laggiù, un miglio, due miglia più sotto.

Nulla, nulla... Avrebbe voluto urlare, ma il fiato sembrava imprigionato nei polmoni. La lucidità ritornò, quando la sua mente atterrita comprese che in realtà era posato su un pavimento solido e che la città doveva essere un'immagine trasmessa, chissà come, direttamente nei suoi occhi.

Per la prima volta, con un trasalimento, Fara riconobbe la metropoli sotto di lui. Era la città dei sogni, la Città Imperiale, la capitale della gloriosa imperatrice Isher... Da quell'altezza enorme poteva vedere i giardini, il parco meraviglioso del palazzo argenteo, la residenza imperiale...

Gli ultimi tentacoli della paura si dissolsero, lasciarono il posto a uno stupore affascinato, e scomparvero totalmente quando Fara si accorse, con un fremito di incerta attesa, che il palazzo si stava avvicinando a grande velocità.

«Mostragli il palazzo», avevano detto. E questo voleva dire, poteva dire...

Quello spumeggiare di pensieri intensi s'infranse e cessò di esistere, mentre i tetti splendenti salivano balenando verso di lui. Fara degluti quando il metallo massiccio lo attraversò, e poi ancora, altre pareti, altri soffitti.

La prima sensazione di commettere una sconvolgente profanazione lo assali quando l'immagine si bloccò in una grande sala, dove dieci o dodici uomini sedevano intorno a un tavolo, e a capotavola stava... una giovane donna.

Le telecamere inesorabili, sacrileghe, potentissime che inquadravano la scena si mossero, ripresero la donna in primo piano.

Era un bei volto, ma in quel momento era sfigurato dalla passione e dal furore, e gli occhi divampavano. La donna si protese e parlò, con una voce che era nel contempo nota - Fara aveva udito spesso i suoi toni calmi e misurati, al telestato — e alterata. Completamente alterata dalla collera e dall'insolente certezza del potere. Quella caricatura di una voce amata lacerò il silenzio, nitidamente, come se lui, Fara, fosse presente nella sala. «Voglio che quel mascalzone venga ucciso, capite? Non m'interessa come farete, ma prima di domani sera voglio che mi venga comunicata la notizia della sua morte».

La visione s'interruppe e in un attimo Fara si trovò di nuovo nel negozio d'armi. Per un momento vacillò, sforzandosi di riabituare gli occhi alla semioscurità. Poi...

La sua prima emozione fu disprezzo per quel trucco ingenuo... un filmato. L'avevano preso per uno sciocco, pronto a credere a una cosa tanto evidentemente irreale? Lui...

Di colpo, la spaventosa oscenità di quel piano, l'indescrivibile perversità del tentativo scatenò in lui una rabbia accecante.

«Criminali!» esplose. «Avete indotto qualcuna a far parte dell'imperatrice, cercando di farmi credere che... Oh...»

«Basta così», disse la voce di Rad, e Fara si scosse quando un giovane grande e grosso comparve davanti a lui. Pensò, angosciato, che chi era capace di insozzare così vergognosamente sua maestà imperiale non avrebbe esitato a far male a Fara Clark. Il giovane continuò, in toni d'acciaio: «Non affermiamo che ciò che ha visto si stesse svolgendo al palazzo in questo istante. Sarebbe stata una coincidenza troppo straordinaria. Ma la scena è stata ripresa due settimane fa; la donna è veramente l'imperatrice. L'uomo che ha ordinato di uccidere era uno dei suoi numerosi ex amanti. È stato trovato assassinato due settimane fa: se vuole controllare negli archivi dei notiziari, si chiamava Banton McCreddie. Comunque, lasciamo stare. Con lei abbiamo finito e...»

«Ma non ho finito io», disse Fara, con voce pesante. «Non ho mai visto o udito una simile infamia in tutta la mia vita. Se credete che questa città non farà nient'altro contro di voi, siete pazzi. Faremo sorvegliare questo negozio notte s giorno, e nessuno potrà entrare e uscire. Faremo...»

«Basta così». Era stato il vecchio a parlare; e Fara, prima di riflettere, s'interruppe per rispetto alla sua età. Il venditore continuò: «L'esame è stato molto interessante. Lei, poiché è un uomo onesto, potrà rivolgersi a noi se si troverà in difficoltà. È tutto. Esca dalla porta laterale».

E fu tutto. Forze impalpabili afferrarono Fara e lo spinsero verso una porta che era apparsa miracolosamente nella parete dove poco prima stava il palazzo imperiale.

Stordito, Fara si trovò su un'aiuola, e alla sua sinistra c'era un gruppo di uomini. Riconobbe i suoi concittadini e comprese di essere... fuori.

L'incubo incredibile si era concluso.

 

«Dov'è il fucile?» chiese Creeel, quando Fara rientrò in casa.

«Il fucile?» Fara fissò la moglie.

«Alla radio, pochi minuti fa, hanno detto che sei stato il primo cliente del nuovo negozio d'armi. Mi è sembrato strano, ma...».

Fara senti la voce della moglie che continuava a parlare, ma non comprese una sola parola. Il trauma era così forte da dargli la sensazione di trovarsi sul ciglio di un abisso.

Dunque era questo che aveva voluto dire il giovane: «Renderemo di dominio pubblico la sua visita e...»

Fara pensò: La sua reputazione! Certo, lui non aveva un grande nome, ma per molto tempo aveva creduto, con tranquillo orgoglio, che l'officina di riparazioni di Fara Clark fosse ben conosciuta nella comunità e nei dintorni.

Prima, l'umiliazione personale nel negozio. E adesso quella... quella menzogna, rivolta alla gente che non sapeva perché era entrato là dentro. Diabolico.

La paralisi lo abbandonò, quando la frenetica smania di smentire quell'indegna accusa lo spinse verso il telestato. Dopo un momento, la faccia grassa e insonnolita del sindaco Mel Dale apparve sullo schermo. La voce di Fara crepitò convulsa; ma le sue speranze caddero quando il sindaco rispose: «Mi dispiace, Fara. Non so perché dovrebbe aver diritto a servirsi gratis del telestato. Dovrà pagare. Loro lo hanno fatto».

«Loro lo hanno fatto!» Fara si chiese vagamente se la sua voce dava la stessa sensazione di vuoto che sentiva dentro.

«E hanno appena pagato Lan Harris per il terreno. Il vecchio ha chiesto il prezzo massimo, e l'ha spuntata. Mi ha appena telefonato per far trasferire il titolo di proprietà».

«Oh»! Il mondo stava andando in frantumi. «Vuol dire che nessuno ha intenzione di muoversi. E la guarnigione imperiale di Ferd?»

Vagamente, Fara senti il sindaco mormorare che i soldati dell'imperatrice rifiutavano di immischiarsi nelle faccende che riguardavano i civili.

«Le faccende che riguardano i civili!» sbottò Fara. «Vuol dire che costoro possono venire qui, ci piaccia o no, e imporre illegamente la vendita di un terreno dopo averlo occupato?»

Un pensiero improvviso lo lasciò senza fiato. «Senta, non avrà cambiato idea... metterà Jor di guardia all'ingresso del negozio?»

Notò, con un sussulto, che la faccia grassa sullo schermo aveva un'espressione spazientita. «Ecco, Fara, stia a sentire», disse pomposamente il sindaco. «Lasci che le autorità costituite si occupino a modo loro della cosa».

«Però lascerà Jor a fare la guardia», insistette Fara.

Il sindaco lo guardò irritato e disse, in tono stizzoso: «L'ho promesso, no? Quindi ci sarà. E adesso... vuole acquistare spazio per la comunicazione al telestato?

Fanno quindici crediti al minuto. Senta, se vuole il mio consiglio d'amico, sono convinto che è denaro buttato. Nessuno è mai riuscito a confutare un'affermazione falsa».

Fara disse, con cupa decisione: «Ne trasmetta due, uno alla mattina e uno alla sera».

«D'accordo. Smentiremo completamente. Buonanotte».

Il telestato si spense e Fara restò seduto a fissarlo. Un altro pensiero gli induri il volto. «Nostro figlio... dovrò parlargli chiaro. O si decide a lavorare in officina con me, o non gli darò più un soldo».

Creel disse: «Lo hai trattato nel modo sbagliato. Ha ventitré anni, e tu lo tratti come se fosse un bambino. Ricorda che a ventitré anni tu eri già sposato».

«Ma era diverso», disse Fara. «Io il senso di responsabilità l'avevo. Sai che cos'ha fatto stasera?»

Non afferrò con chiarezza la risposta della moglie. Per un momento, gli sembrò che avesse detto: «No: tu come l'hai umiliato, prima?»

Fara era troppo spazientito per chiederle di ripetere le parole. Continuò, in fretta: «Si è rifiutato di aiutarmi, di fronte all'intero villaggio. È marcio, è proprio marcio».

«Sì,» disse Creel. in tono amaro. «È marcio. E tu non sai fino a che punto. È freddo come l'acciaio, ma senza la forza e l'integrità dell'acciaio. Ha impiegato molto tempo per arrivarci, ma adesso odia persino me, perché ho continuato così a lungo a schierarmi dalla tua parte, benché sapessi che avevi torto».

«Cosa?» chiese Fara, sbalordito; e poi, bruscamente: «Su, su, cara, siamo tutti e due sconvolti. Andiamo a letto».

Fara dormi molto male.

 

C'erano giorni in cui la convinzione che si trattasse di una lotta personale tra lui e il negozio d'armi opprimeva Fara. Con torva decisione, sebbene fosse lontano dal suo solito percorso, passava apposta davanti al negozio, e si fermava sempre a parlare con l'agente Jor e...

Il quarto giorno, la guardia non c'era.

Fara attese, dapprima con pazienza e poi con rabbia. Quindi raggiunse in fretta la sua officina e chiamò la casa di Jor. No. Jor non c'era. Era di guardia al negozio d'armi.

Fara esitò. Aveva parecchio da fare, in officina, e aveva il rimorso di aver trascurato i clienti per la prima volta in vita sua. Sarebbe stato semplice chiamare il sindaco e denunciare la defezione di Jor. Eppure...

Non voleva metterlo nei guai...

Vide che una folla si stava raccogliendo per la via, davanti al negozio d'armi. Fara allungò il passo. Un conoscente gli gridò, agitato: «Jor è stato assassinato, Fara!»

«Assassinato!» Fara restò impietrito, e in un primo momento non ebbe neppure la consapevolezza nitida del pensiero macabro che gli affiorava nella mente... Soddisfazione! Una soddisfazione fiammeggiante. Adesso, pensò, avrebbero dovuto intervenire anche i soldati. Avrebbero...

Reprimendo un grido, si rese conto dell'orrore di quel pensiero. Rabbrividì, ma riuscì a scacciare dalla mente il senso di vergogna. Chiese: «Dov'è il cadavere?»

«Dentro».

«Vuoi dire... quei... delinquenti...» Nonostante tutto, Fara esitò prima di pronunciare quell'epiteto: persino ora era difficile pensare in quei termini al bel vecchio dai capelli argentei. Di colpo, la sua mente ritrovò la fermezza. Chiese, di scatto: «Vuoi dire che quei delinquenti l'hanno ucciso e hanno portato dentro il cadavere?»

«Nessuno ha visto il delitto», disse un altro uomo che era li vicino. «Ma Jor è sparito, nessuno l'ha più visto da tre ore. Il sindaco ha chiamato al telestato il negozio d'armi, ma loro sostengono di non saperne niente. Lo hanno eliminato, ecco, e adesso si fingono innocenti. Bene, non se la caveranno così a buon mercato. Il sindaco è andato a telefonare ai militari, a Ferd, perché portino qualche cannone di grosso calibro e...»

L'intensa eccitazione che pervadeva la folla si comunicò a Fara, il presentimento di qualcosa di grosso che si stava preparando. Era la sensazione più deliziosa che mai gli avesse percorso i nervi, mescolata allo strano orgoglio di aver avuto sempre ragione, di non aver mai dubitato del male rappresentato dal negozio d'armi.

Non riconobbe che quel sentimento era la gioia dirompente che si prova quando si fa parte di una folla scatenata. Ma la sua voce tremò quando disse: «I cannoni? Sì, sarebbero la soluzione, e naturalmente dovranno venire anche i soldati».

Fara annui tra sé, assolutamente certo che i soldati imperiali, adesso, non avrebbero avuto più pretesti per non agire. Fece per dire qualcosa a proposito di quel che avrebbe fatto l'imperatrice se avesse scoperto che un uomo aveva perduto la vita perché i militari s'erano rifiutati di compiere il loro dovere, ma le sue parole furono sommerse da un grido:

«Ecco il sindaco! Ehi, signor sindaco, quando arrivano i cannoni atomici?»

 

Ci furono altre frasi dello stesso tenore, quando l'agile macchina del sindaco atterrò, posandosi leggermente al suolo. Alcune delle domande dovettero arrivare agli orecchi del primo cittadino di Glay, perché si alzò nel biposto scoperto e levò la mano per imporre silenzio.

Con grande sorpresa di Fara, Dale lo guardò con aria d'accusa. Gli sembrò così impossibile che, istintivamente, Fara si voltò indietro. Ma era rimasto quasi solo; tutti gli altri s'erano fatti avanti.

Fara scrollò la testa, sconcertato da quello sguardo; e poi, incredibilmente, il sindaco Dale puntò l'indice verso di lui e disse con voce tremante: «Ecco il responsabile del guaio che ci è capitato. Si faccia avanti, Fara Clark, in modo che possiamo vederla. È costato a questa città settecento crediti che non avremmo potuto permetterci di spendere».

Fara non sarebbe riuscito a muoversi o a parlare neppure per salvarsi la vita. Restò immobile, smarrito in un labirinto di muta perplessità. Prima che riuscisse a pensare qualcosa, il sindaco prosegui, con un fremito d'autocommiserazione nella voce: «Lo sapevamo tutti che non è prudente impicciarci con i negozi d'armi. Se il governo imperiale li lascia in pace, che diritto abbiamo noi di piazzare sentinelle o di agire contro di loro? Io la pensavo così fin dall'inizio, ma quest'uomo... questo... questo Fara Clark ha insistito con tutti, ci ha costretti a muoverci contro la nostra volontà, e adesso abbiamo un conto di settecento crediti da pagare e...»

Dale s'interruppe. «Tagliamo corto. Quando ho chiamato la guarnigione, il comandante mi ha riso in faccia e ha detto che Jor sarebbe ricomparso. Avevo appena tolto la comunicazione quando ho ricevuto una chiamata a nostro carico da Jor. È su Marte».

Il sindaco attese che le esclamazioni di sbalordimento si placassero. «Impiegherà tre settimane a ritornare qui con una nave, e dovremo pagargli noi il viaggio, il responsabile di tutto è Fara Clark. È stato lui...»

Fara aveva superato il trauma. Era immoto, lucido. Alla fine disse, in tono tagliente: «Dunque ha intenzione di desistere e di addossare tutta la colpa a me. Io dico che siete tutti pazzi».

Mentre si voltava per andarsene, senti il sindaco Dale dire che la situazione non era completamente disastrosa, perché aveva saputo che il negozio d'armi era stato installato a Glay dato che il villaggio era equidistante da quattro città, e che mirava agli acquirenti di quei centri. E questo avrebbe portato turisti e buoni affari per gli altri negozi del villaggio e...

Fara non sentì altro. A testa alta, tornò verso la sua officina. Qualcuno lo fischiò, ma lui non vi fece caso.

Non aveva il presentimento di una catastrofe imminente; provava soltanto una rabbia crescente contro il negozio d'armi, che l'aveva messo in cattiva luce agli occhi dei suoi concittadini.

 

La cosa peggiore, via via che i giorni passavano, era la certezza che quelli del negozio d'armi non nutrivano per lui il minimo interesse personale. Erano remoti, superiori, imbattibili. Quell'invincibilità era come una fioca certezza repressa nella mente di Fara.

Quando ci pensava, provava un vago senso di paura per il modo in cui avevano trasferito Jor su Marte in meno di tre ore, quando tutti sapevano che il viaggio, anche con la nave spaziale più veloce, richiedeva quasi tre settimane.

Fara non andò alla stazione della linea espressa per assistere al ritorno di Jor. Aveva sentito dire che il consiglio comunale aveva deciso di addebitare a Jor metà delle spese del viaggio, minacciando di licenziarlo se avesse protestato.

La seconda notte dopo il ritorno di Jor, Fara andò di nascosto a casa sua e gli consegnò centosettantacinque crediti. Non era responsabile dell'accaduto, disse a Jor, tuttavia...

L'agente fu ben lieto di accettare quella smentita, grazie alla somma che l'accompagnava. Fara tornò a casa con la coscienza più tranquilla.

Tre giorni più tardi, la porta della sua officina si spalancò ed entrò un uomo. Fara aggrottò la fronte quando vide chi era: Castler, uno sfaccendato del villaggio. Castler sogghignava.

«Pensavo che la cosa ti interessasse, Fara. Oggi qualcuno è uscito dal negozio d'armi».

Fara strattonò energicamente il bullone di una lastra del motore atomico che stava riparando. Attese, con irritazione crescente, ma l'uomo non aggiunse altro. Se l'avesse interrogato, gli avrebbe dato troppa importanza. Ma alla fine, la curiosità lo indusse a dire, controvoglia: «Immagino che l'agente si sia affrettato ad arrestarlo».

Non l'immaginava affatto, ma era un modo per indurre l'altro a continuare.

«Non era un uomo. Era una ragazza».

Fara aggrottò la fronte. Non gli andava l'idea di mettere nei guai una donna. Ma... quei diavoli erano furbi. Servirsi di una ragazza, come s'erano serviti di un vecchio come venditore. Era un trucco che meritava di fallire, e la ragazza era probabilmente una criminale degna di un trattamento senza riguardi. Fara disse in tono aspro: «E allora, cos'è successo?»

«Lei è ancora in giro, tranquilla e beata. Ed è anche carina».

Fara estrasse il bullone, portò la lastra alla lucidatrice e cominciò il lungo, paziente lavoro per eliminare i cristalli che il calore aveva prodotto nel metallo. Il rombo sommesso della lucidatrice fece da sfondo alle sue parole.

«Non hanno fatto niente?»

«No. La guardia è stata informata, ma ha detto che non ha nessuna voglia di star lontano dalla sua famiglia per altre tre settimane, e di dover pagare per giunta le spese».

Fara rifletté cupamente per un minuto, mentre la lucidatrice continuava a rombare. Finalmente, con voce che fremeva di furore represso, disse: «E così li lasciano fare impunemente. Sono furbi come il diavolo. Ma non capiscono che non devono cedere di fronte a quei... a quei trasgressori? È come favorire il peccato».

Con la coda dell'occhio, notò che l'altro stava sogghignando in modo strano. All'improvviso, Fara comprese che quell'uomo si divertiva della sua rabbia. E c'era qualcosa d'altro in quel sogghigno... una conoscenza segreta.

Fara tolse la lastra del motore dalla lucidatrice. Si girò verso lo sfaccendato e disse, in tono tagliente: «È ovvio che l'idea del peccato non ti preoccupa molto».

«Oh», fece Castler, con indifferenza, «i colpi più duri della vita rendono tollerante la gente. Per esempio, quando conoscerai meglio la ragazza, probabilmente anche tu capirai che c'è qualcosa di buono in tutti».

Non furono tanto le parole quando il tono saputo e orgoglioso a far scattare Fara. «Cosa vorresti dire... quando conoscerò meglio la ragazza? Non voglio neppure parlare, con quella spudorata!»

«Non sempre si può scegliere», disse l'altro, con studiata disinvoltura. «Supponi che lui la porti a casa».

«E chi dovrebbe portarla a casa?» ribatté irritato Fara. «Castler, tu...»

S'interruppe: il peso plumbeo dello sgomento gli oppresse lo stomaco, e tutto il suo essere tremò. «Vuoi dire...» cominciò.

«Voglio dire», rispose Castler con un sogghigno trionfante, «che i giovani non potevano lasciare in pace una bellezza come lei. E naturalmente tuo figlio è stato il primo ad attaccare discorso».

E concluse: «Adesso stanno passeggiando sulla Seconda Strada, e vengono da questa parte e...»

«Fuori di qui!» ruggì Fara. «E stammi lontano con quel tuo sporco sorriso soddisfatto! Fuori!»

Castler non si aspettava quella conclusione ignominiosa. Avvampò e usci, sbattendo la porta.

Fara restò immobile per un momento, irrigidito. Poi, con un movimento brusco, tolse l'energia e uscì sulla strada.

Era ora di farla finita... e subito!

 

Non aveva un piano preciso, soltanto la decisione incrollabile di stroncare immediatamente una situazione impossibile. E alla decisione si mescolava la sua collera contro Cayle. Come poteva aver avuto un figlio tanto indegno, lui che pagava i debiti e lavorava con serietà, e cercava di vivere onestamente, secondo i principii più alti dell'imperatrice?

Un breve, cupo pensiero passò per la mente di Fara: forse c'era sangue corrotto dalla parte di Creel. Non veniva dalla madre di lei, certo... si affrettò ad aggiungere mentalmente Fara. Quella era una bravissima donna, lavoratrice e attaccata al denaro, e prima o poi avrebbe lasciato a Creel un bel gruzzolo.

Ma il padre di Creel era scomparso quando lei era soltanto una bambina, ed era corsa la voce scandalosa che fosse scappato con un'attrice del telestato.

E adesso Cayle, con la ragazza del negozio d'armi. Una ragazza che si era lasciata abbordare...

Li vide quando svoltò l'angolo della Seconda Strada. Stavano camminando una trentina di metri più avanti e si allontanavano da lui. La ragazza era snella, alta quasi come Cayle e, mentre Fara si avvicinava, lei stava dicendo: «Ti sei fatto un'idea sbagliata sul nostro conto. Uno come te non può trovar posto nella nostra organizzazione. Il posto per te è il Servizio Imperiale, dove vanno benissimo i giovani istruiti, di bell'aspetto e senza scrupoli. Io...»

Fara si rese conto solo oscuramente che Cayle doveva aver tentato di ottenere un lavoro da quella gente. Non era chiaro; ed era troppo concentrato sulla sua decisione perché quelle parole avessero un significato preciso, al momento. Chiamò con voce aspra: «Cayle!».

I due si voltarono: Cayle con la misurata tranquillità di un giovane ben avviato sulla strada che porta alla conquista dei nervi d'acciaio; la ragazza fu più svelta, ma sempre dignitosa.

Fara ebbe la sensazione vaga e terrificante che la sua collera fosse troppo enorme, autodistruttiva: ma la violenza stessa dei suoi sentimenti stroncò quel pensiero sul nascere. Disse, con voce sorda: «Cayle, torna a casa... immediatamente».

Si accorse che la ragazza lo scrutava incuriosita con gli strani occhi verdegrigi. Che svergognata, pensò, e la sua rabbia crebbe ancora, scacciando l'allarme destato dalla vampata di rossore che si diffondeva sulle guance di Cayle.

Il rossore si smorzò in un pallore di collera. A labbra serrate, Cayle si girò a mezzo verso la ragazza e disse: «Questo è il vecchio rimbambito che devo sopportare. Per fortuna ci vediamo di rado; non mangiamo neppure insieme. Cosa te ne pare?»

La ragazza rispose con un sorriso impersonale: «Oh, conosciamo Fara Clark: è il sostenitore dell'imperatrice, qui a Glay».

«Sì», disse il giovane con una smorfia. «Dovresti sentire quel che dice. È convinto che viviamo in paradiso, e che l'imperatrice sia la potenza divina. Il guaio è che non c'è speranza di vederlo perdere quell'aria di pomposa rettitudine».

I due si avviarono di nuovo, e Fara restò inchiodato lì. Quanto era accaduto aveva svuotato completamente la sua collera. Aveva l'impressione d'aver commesso un errore così grande che...

Non riusciva a capire. Da molto tempo, ormai, da quando Cayle si era rifiutato di lavorare in officina, aveva sentito la tensione accumularsi. All'improvviso, la sua rabbia incontrollabile si rivelò come un prodotto parziale di quel problema più profondo.

Ma adesso che era venuto il momento dello scontro, non voleva affrontarlo...

Per tutto il giorno, nell'officina, continuò a scacciare dalla mente quel problema, continuò a chiedersi se sarebbe continuato ancora come prima, con lui e Cayle che vivevano nella stessa casa, e non si guardavano neppure quando si incontravano, andavano a dormire a orari diversi e si alzavano, Fara alle sei e mezzo, Cayle a mezzogiorno. Sarebbe continuato così per tutti i giorni e gli anni del futuro?

Quando arrivò a casa, Creel lo stava aspettando. Gli disse: «Fara, lui vuole che gli presti cinquecento crediti, per andare alla Città Imperiale».

Fara annui in silenzio. La mattina dopo arrivò a casa con il denaro e lo consegnò a Creel, che lo portò in camera da letto e uscì dopo un minuto. «Mi ha chiesto di dirti addio».

Quando Fara tornò a casa quella sera, Cayle se ne era andato. Lui si chiese se doveva provare sollievo o... che cosa?

 

I giorni passavano. Fara lavorava. Non aveva altro da fare, e spesso affiorava nella sua mente il pensiero grigio che ormai avrebbe continuato così fino al giorno della sua morte. Tuttavia...

Era uno sciocco, e continuava a ripeterselo mille volte, ma continuava a sperare che Cayle entrasse nell'officina e dicesse: «Padre, ho imparato la lezione. Se puoi perdonarmi, insegnami il mestiere, e poi lascia il lavoro e goditi il meritato riposo».

Esattamente un mese dopo la partenza di Cayle, il telestato si accese subito dopo che Fara aveva finito di pranzare. «Chiamata a pagamento», sospirò l'apparecchio. «Chiamata a pagamento».

Fara e Creel si guardarono in faccia. «Eh», disse finalmente Fara. «Una chiamata a pagamento per noi».

Dall'espressione grigia del viso di Creel comprese quel che lei stava pensando. Disse, sottovoce: «Accidenti a quel ragazzo!»

Ma provava un senso di sollievo. Cayle cominciava ad apprezzare l'importanza dei genitori e...

Accese lo schermo. «Parli pure», disse.

La faccia che apparve era quella di uno sconosciuto, con le gote cascanti e le sopracciglia ispide. L'uomo disse: «Sono Pearton, della Quinta Banca di Ferd. Abbiamo qui un addebito a vista di diecimila crediti a suo carico. Con le spese e le tasse governative, la somma richiesta è dodicimila e cento crediti. Paga subito, oppure verrà questo pomeriggio a pagare?»

«Ma... ma...» balbettò Fara. «C-chi...»

S'interruppe, rendendosi conto della stupidità della domanda, vagamente consapevole che l'uomo dalle guance cascanti stava dicendo che il prestito era stato pagato quella mattina a un certo Cayle Clark, alla Città Imperiale. Finalmente, Fara ritrovò la voce.

«Ma la banca non aveva il diritto», esclamò, «di pagare senza la mia autorizzazione. Io...»

La voce l'interruppe freddamente: «Allora dobbiamo informare la nostra sede centrale che il denaro è stato ottenuto abusivamente? Verrà emanato subito l'ordine di arrestare suo figlio».

«Aspetti... aspetti...» disse Fara, stordito. Accanto a lui, Creel scuoteva la testa. Era pallida come un cencio: disse con voce stravolta: «Fara, lascialo perdere. Con noi ha chiuso. Dobbiamo essere duri... lascialo perdere».

Quelle parole echeggiarono prive di senso agli orecchi di Fara. Non rientravano nell'ordine normale delle cose. Disse:

«Io... non ho... non potrei pagare... a rate? Io...»

«Se vuole un prestito», disse Pearton «naturalmente saremo lieti di prendere in considerazione la richiesta. Posso dirle che quando è arrivato l'addebito abbiamo preso informazioni su di lei, e siamo disposti a prestarle undicimila crediti a tempo indeterminato, con la sua officina come garanzia. Ho qui il modulo e se lei è d'accordo, passeremo la comunicazione sul circuito registrato, e lei potrà firmare subito».

«Fara, no».

L'impiegato di banca disse: «Gli altri millecento crediti devono essere pagati in contanti. È d'accordo?»

«Sì, sì, naturalmente. Ho duemilacinquecen...» Fara s'interruppe di colpo. Poi aggiunse: «Sì, sono d'accordo».

Dopo aver concluso la transazione, Fara si voltò di scatto verso la moglie, reso furioso dalla sofferenza e dallo sbalordimento: «Perché dicevi che non dovevo pagare? Hai detto tante volte che è colpa mia, se lui è diventato così. E poi, non sappiamo perché aveva bisogno di quel denaro. Lui...»

Creel disse con voce bassa, spenta: «In un'ora ci ha spogliati del frutto di una vita di lavoro. Lo ha fatto apposta, giudicandoci due vecchi stupidi, sapendo che avremmo pagato».

Prima che Fara potesse replicare, lei continuò: «Oh, lo so, davo la colpa a te: ma in fondo sapevo che era sua. Era sempre freddo e calcolatore, ma io ero debole, e pensavo che se tu l'avessi trattato in un altro modo... e per tanto tempo ho rifiutato di rendermi conto dei suoi torti. Lui...».

«Io so soltanto», l'interruppe cocciutamente Fara, «che ho salvato il nostro nome dal disonore».

La sensazione di aver fatto il suo dovere durò fino a metà del pomeriggio, quando l'ufficiale giudiziario arrivò da Ferd per sequestrare l'officina.

«Ma cosa...» cominciò Fara.

L'ufficiale giudiziario disse: «Le Officine Riparazioni Atomiche Automatiche hanno rilevato il suo prestito dalla banca, e ora fanno valere i loro diritti. Ha qualcosa da dire?»

«È ingiusto», disse Fara. «Mi rivolgerò al tribunale. Farò...»

Stava pensando, stordito: Se l'imperatrice lo sapesse, lei... lei...

Il tribunale era un grande palazzo grigio, e Fara si sentiva sempre più agghiacciato e svuotato ad ogni secondo, mentre si aggirava per i corridoi. A Glay, la sua decisione di non mettersi nelle mani d'uno strozzino di avvocato gli era sembrata saggia. Li, in quei corridoi enormi e in quelle aule principesche, sembrava una pazzia.

Comunque, riuscì a spiegare in modo coerente il comportamento criminoso della banca, che prima aveva pagato l'assegno a Cayle, e poi aveva ceduto l'ipoteca al suo principale concorrente, pochi minuti dopo che lui l'aveva firmata. E concluse: «Sono sicuro, signore, che l'imperatrice non approverebbe simili raggiri ai danni degli onesti cittadini. Io...»

«Come osa», chiese con voce fredda il giudice, «invocare il nome di sua maestà a sostegno di questi meschini interessi personali?»

Fara rabbrividì. La sensazione di far parte della grande famiglia umana dell'imperatrice lasciò il posto a un gelo improvviso, alla visione di dieci milioni di tribunali come quello, della miriade di uomini malevoli e senza cuore — come quello — che stavano tra l'imperatrice e il suo devoto suddito Fara.

Pensò, appassionatamente: se l'imperatrice avesse saputo quel che stava accadendo, se avesse saputo che veniva trattato ingiustamente, avrebbe...

Davvero?

Fara scacciò dalla mente il dubbio terribile e uscì con un sussulto dalle sue fantasticherie quando sentì il cadì sentenziare: «L'appello del ricorrente è respinto. Le spese sono da liquidarsi in settecento crediti, da dividersi tra il tribunale e l'avvocato della difesa nella proporzione di cinque a due. Il ricorrente non potrà allontanarsi prima di aver pagato. Al prossimo caso...»

 

L'indomani, Fara andò, solo, a trovare la madre di Creel. La cercò prima al Ristorante dell'Agricoltore, alla periferia del villaggio. Il locale era quasi pieno, sebbene fosse metà mattina, notò soddisfatto, pensando al fiume di denaro che doveva entrare in continuazione. Ma la signora non c'era: la cercasse al magazzeno.

La trovò in fondo al magazzeno, occupata a sovrintendere la pesa del grano nei sacchi di tela. La vecchia dalla faccia dura ascoltò il suo racconto senza pronunciare una parola. Alla fine disse, bruscamente: «Niente da fare. Spesso devo farmi dare prestiti dalla banca, per i miei affari. Se ti aiutassi ad aprire un'altra officina, quelli delle Riparazioni Atomiche Automatiche cercherebbero di danneggiarmi. E poi, sarei pazza se dessi il mio denaro a un uomo che si lascia dissanguare da un figlio simile. Non hai un filo di buon senso.

«E non ti darò lavoro, perché nella mia azienda non assumo parenti». E concluse: «Di' a Creel di venire a stare da me. Ma non me la sento di mantenere un uomo. È tutto».

Fara la guardò sconsolato per qualche istante, mentre lei controllava i dipendenti occupati con le vecchie macchine, non più molto attendibili. Per due volte, la voce della vecchia echeggiò nello stanzone pieno di polvere, bruscamente: «Quello è sopra peso, almeno di un grammo. Stai attento alla macchina».

Sebbene gli voltasse le spalle, Fara capiva che era ancora conscia della sua presenza. Alla fine, lei si voltò con un movimento secco e disse: «Perché non vai al negozio d'armi? Non hai niente da perdere e non puoi continuare così».

Fara usci, stordito. In un primo momento non pensò che il consiglio di acquistare un'arma per suicidarsi si riferisse personalmente a lui. Ma era smisuratamente turbato all'idea che sua suocera avesse detto una cosa simile.

Uccidersi? Era ridicolo. Era ancora giovane, sotto la cinquantina. Se avesse avuto un'occasione buona, con la sua abilità avrebbe potuto vivere bene anche in un mondo in cui le macchine automatiche trionfavano. C'era sempre posto per un uomo capace di fare bene il suo lavoro. Tutta la sua vita si era basata su quella convinzione.

Uccidersi...

Quando arrivò a casa, Creel stava facendo i bagagli. «È la cosa più sensata che possiamo fare», disse lei. «Affitteremo la casa e ci trasferiremo in un appartamentino».

Fara le riferì che sua madre si era offerta di prenderla a vivere con sé, e la scrutò attentamente mentre parlava. Creel alzò le spalle.

«Le ho già detto di no ieri», disse pensosamente. «Mi domando perché te ne ha parlato».

Fara andò alla grande finestra che dava sul giardino, con i fiori, lo stagno, le rocce. Cercò di immaginare Creel lontana da quel giardino, dalla casa dove aveva vissuto due terzi della sua vita, Creel che viveva in un appartamentino mobiliato... e comprese quel che aveva voluto dire sua suocera. C'era ancora una speranza...

Attese che Creel fosse salita al piano di sopra e chiamò Mel Dale al telestato. La faccia grassa del sindaco assunse un'espressione irrequieta, appena vide chi era.

Ma ascoltò con aria solenne e alla fine disse: «Mi dispiace, il consiglio non presta denaro. E tanto vale chiarirlo subito, Fara... io non c'entro, naturalmente, ma non potrà più avere la licenza per aprire un'officina».

«C-cosa?»

«Mi dispiace!» Il sindaco abbassò la voce. «Senta, Fara, ascolti il mio consiglio e vada al negozio d'armi. Quei posti possono essere utili».

Fara senti lo scatto e restò a fissare lo schermo vuoto.

 

Quindi doveva essere... la morte!

Attese che nella strada non ci fosse più nessuno, poi attraversò il viale, passò davanti ai giardini e si avvicinò alla porta del negozio. Per un attimo temette che la porta non si aprisse: ma si aprì senza fatica.

Quando passò dall'ingresso semibuio al negozio vero e proprio, vide il vecchio dai capelli argentei seduto in poltrona, in un angolo. Stava leggendo sotto una luce viva e dolce. Il vecchio alzò gli occhi, posò il libro e si alzò.

«È il signor Clark», disse tranquillamente. «Cosa possiamo fare per lei?»

Un lieve rossore salì alle guance di Fara. Vagamente, aveva sperato di non venire riconosciuto; ma adesso che la sua paura si era realizzata si senti più deciso. L'importante era che non restasse un cadavere, altrimenti Creel avrebbe dovuto spendere parecchio per seppellirlo. Un coltello o un veleno non sarebbero serviti a quello scopo.

«Voglio un'arma», disse Fara, «che si possa regolare per disintegrare un corpo del diametro di un metro e ottanta con un unico colpo. Ce l'ha?»

Senza una parola, il vecchio si girò verso una vetrina, e prese una pistola, un robusto gioiello che scintillava dei colori tenui dell'inimitabile plastica Ordina. Disse, in tono meticoloso: «Noti che le flange della canna sono minutissime. È il modello ideale da portarsi in una fondina a tracolla, sotto la giacca; può venire estratta con grande rapidità perché, quando è adeguatamente sintonizzata, balza incontro alla mano tesa del proprietario. Al momento è sintonizzata su di me. Osservi mentre la ripongo nella fondina e...»

La rapidità con cui il vecchio la estrasse era sbalorditiva. Le dita si mossero, e la pistola, lontana più di un metro, vi si posò. Non vi fu neppure un movimento. Era come la porta, la sera che era sfuggita alla stretta di Fara ed era sbattuta silenziosamente in faccia all'agente Jor. Istantaneo!

Fara, che aveva socchiuso le labbra, mentre il vecchio spiegava, per protestare contro l'inutilità di dimostrargli le qualità dell'arma perché a lui interessava soltanto quella che aveva richiesta, tacque. Guardò, affascinato, preso dalla meraviglia.

Aveva visto e maneggiato le armi dei soldati, semplici oggetti di metallo e di plastica che si usavano goffamente come ogni altra cosa materiale, ben diversi da quella che possedeva una sua vita sorprendente, e balzava premurosamente, con tutta la sua potenza superba, docile al richiamo del padrone...

Trasalendo, Fara ricordò le sue intenzioni. Sorrise ironicamente e disse: «È molto interessante. Ma il raggio?»

Il vecchio rispose con calma: «Allo spessore di una matita, il raggio può trapassare qualunque corpo, eccettuate certe leghe di piombo, fino a quattrocento metri. Con un'opportuna regolazione della canna, può disintegrare un oggetto di un metro e ottanta a una distanza di cinquanta metri. Questa vite è il regolatore».

Indicò la minuscola vite sulla canna. «La giri verso sinistra per allargare il raggio, verso destra per restringerlo».

Fara disse: «La prendo. Quanto costa?»

Il vecchio lo guardò, pensieroso, e finalmente disse: «Le ho già spiegato i nostri regolamenti, signor Clark. Li ricorda, naturalmente?».

«Eh!» disse Fara, e s'interruppe, sgranando gli occhi. Non li aveva dimenticati. Ma...

«Vuol dire», ansimò, «che sono veramente validi? Non sono....»

Con uno sforzo tremendo, dominò la mente confusa e la voce tremante. Teso e freddo, disse: «Voglio soltanto una pistola che spari per difesa personale, ma che possa usare su me stesso, se devo... o se voglio».

«Oh, suicidio!» disse il vecchio. Sembrava che avesse capito, improvvisamente. «Mio caro signore, non abbiamo obiezioni se lei intende uccidersi. È un suo diritto personale in un mondo nel quale i diritti sono sempre più scarsi ogni anno. In quanto al prezzo di questa pistola, è quattro crediti».

«Quattro cre... solo quattro crediti!» esclamò Fara.

Restò in silenzio, sbalordito, distolto dal suo macabro proposito. Ma soltanto la plastica valeva... e la pistola, splendidamente lavorata... a venticinque crediti sarebbe stata a buon mercato.

Provò un breve fremito d'interesse: il mistero dei negozi l'armi gli sembrò all'improvviso immane e importante quanto il suo sciagurato destino. Ma il vecchio aveva ripreso a parlare.

«Ora, se vuol togliersi la giacca, potremo mettere la fondina...»

Automaticamente, Fara obbedì. Era vagamente sorprendente rendersi conto che, tra pochi secondi, sarebbe uscito di lì, armato per uccidersi, e che ormai non c'erano ostacoli alla sua morte.

Stranamente, si sentì deluso. Non sapeva spiegarlo, ma in fondo alla sua mente aveva nutrito la speranza che quei negozi potessero... potessero... che cosa?

Già, che cosa? Fara sospirò stancamente... e si accorse ancora una volta che il vecchio gli parlava.

«Forse preferisce uscire dalla porta laterale. La noteranno meno».

Fara non oppose resistenza. Sentì appena le dita dell'uomo che lo guidavano per il braccio; e poi il vecchio premette uno dei numerosi pulsanti della parete — dunque era così che facevano — e la porta apparve.

Vide i fiori, oltre l'apertura. Senza una parola, si mosse. Uscì quasi senza rendersene conto.

 

Fara rimase per un momento su! vialetto, cercando di afferrare la irrevocabilità della situazione. Ma provava soltanto la curiosa consapevolezza che molti uomini gli stavano intorno. Per un lungo istante, la sua mente fu come un tronco che galleggiava su un fiume, di notte.

In quell'oscurità emerse la coscienza di qualcosa che non andava: la sentiva in fondo alla sua mente, mentre svoltava verso sinistra, verso la facciata del negozio d'armi.

La sensazione vaga si mutò in un'esclamazione soffocata. Perché... non era a Glay, e il nagozio d'armi non c'era più. Al suo posto...

Dieci o dodici uomini passarono accanto a Fara per aggiungersi a una lunga fila, più avanti. Ma Fara era insensibile alla loro presenza, alla loro estraneità. La sua mente, la sua vista, tutto il suo essere erano concentrati sulla sezione della macchina che stava dove prima c'era il negozio d'armi.

Una macchina, oh, una macchina...

La sua mente cercò di afferrare l'imponenza dell'immensità di metallo opaco che si estendeva sotto il sole estivo, sotto un cielo azzurro come un lontano mare del Sud.

La macchina torreggiava nel cielo, in cinque immensi ripiani di metallo, ognuno dei quali era alto trenta metri: e quei centocinquanta metri superbamente aerodinamici terminavano in una vetta di luce, una guglia splendente che si ergeva diritta per altri sessanta metri.

Ed era una macchina, non un palazzo, perché il ripiano inferiore era animato da luci ammiccanti, quasi tutte verdi, ma inframmezzate da altre rosse, talvolta da una azzurra o gialla. Per due volte, mentre Fara le guardava, le luci verdi direttamente davanti a lui divennero rosse.

Il secondo ripiano splendeva di luci bianche e rosse, sebbene fossero molto meno numerose di quelle del primo. La terza sezione portava, sulla superficie di metallo opaco, soltanto luci azzurre e gialle, che scintillava no dolcemente qua e là sull'area immensa.

Il quarto ripiano era una serie di scritte che incominciavano ad avere un senso. Le scritte dicevano:

BIANCO - NATI

ROSSO - MORTI

VERDE - VIVI

AZZURRO - IMMIGRATI SU TERRA

VERDI - EMIGRATI

Anche il quinto ripiano era tutto una scritta, e spiegava, finalmente: Popolazione

SISTEMA SOLARE

19.174.463.747

TERRA

11.193.247.361

MARTE

1.097.298.604

VENERE

5.141.053.811

LUNE

1.742.863.971

I numeri cambiavano mentre Fara li guardava, salivano e scendevano, spostandosi più in alto e più in basso. C'era gente che moriva, che nasceva, che si trasferiva su Marte, su Venere, sulle lune di Giove, sulla luna della Terra e altra gente che ritornava, atterrava di minuto in minuto nelle migliaia di spazioporti. La vita continuava, gigantesca... e quella era la sbalorditiva documentazione. Era...

«È meglio che si metta in fila», disse una voce gentile. «Ci vuole un po' per poter esporre un caso personale, a quanto mi risulta».

Fara guardò l'uomo. Aveva la netta impressione che le parole che gli aveva rivolto non avessero senso. «In fila?» chiese... e s'interruppe con un sussulto che gli fece dolere la gola.

Stava avanzando, ciecamente, davanti all'uomo che gli aveva parlato, pensando che doveva essere stato così che l'agente Jor era stato trasportato su Marte... quando un'altra delle parole dell'uomo divenne più chiara.

«Un caso?» domandò Fara, di scatto. «Un caso personale?»

L'uomo, sui trentacinque anni, faccia massiccia, occhi azzurri, lo guardò incuriosito. «Deve ben saperlo, perché è qui», disse. «Sicuramente non l'avrebbero mandato se non avesse un problema che i tribunali dei negozi d'armi risolveranno; non ci sono altre ragioni per venire al Centro Informazioni».

Fara continuò a camminare perché ormai era in fila, e la fila avanzava in fretta, portandolo inesorabilmente intorno alla macchina, verso una porta che conduceva all'interno dell'immensa struttura metallica.

Dunque era un palazzo, non soltanto una macchina.

Un problema, pensò. Certo, lui aveva un problema, un problema disperato, insolubile, aggrovigliato, così profondamente radicato nella struttura della civiltà imperiale che sarebbe stato necessario sovvertire il mondo per risolverlo.

Con un sussulto, Fara si accorse di essere arrivato all'ingresso. E pensò, sgomento: tra pochi secondi sarebbe stato irrevocabilmente coinvolto... in che cosa?

 

All'interno c'era un lungo corridoio lucido, con dozzine di passaggi trasparenti che si ramificavano. Dietro Fara, la voce del giovane disse: «Eccone là uno praticamente vuoto. Andiamo».

Fara si avviò: e all'improvviso si accorse di tremare. Aveva già notato che in fondo a ognuno dei corridoi laterali c'erano dozzine di giovani donne, sedute alle scrivanie, che interrogavano i visitatori e... santo cielo, possibile che questo volesse dire...

Si accorse di essersi fermato davanti a una delle ragazze.

Era più anziana di quanto gli fosse sembrata in distanza: aveva superato la trentina, ma era bella e attenta. Sorrise con gentilezza impersonale e chiese: «Il suo nome, prego?»

Fara lo disse, senza riflettere, e aggiunse, mormorando, che veniva dal villaggio di Glay. La donna disse: «Grazie. Ci vorrà qualche minuto per prendere la sua scheda. Non vuole accomodarsi?»

Fara non aveva notato la poltroncina. Sedette, e il cuore gli batteva all'impazzata, da soffocarlo. La cosa più strana era che non c'era quasi un pensiero nella sua mente, o una speranza: soltanto un'intensa, sconvolgente agitazione.

Con un sussulto, si accorse che la ragazza aveva ripreso a parlare, ma solo a tratti la voce filtrava attraverso lo schermo della sua tensione.

«... Il Centro Informazioni è... in pratica... un ufficio statistico. Ogni persona che nasce... registrata qui... titolo di studio, cambiamenti d'indirizzo... occupazione... e gli eventi importanti della vita... È tutto organizzato da... combinazione di... collegamenti non autorizzati e insospettati con... Camera Imperiale di Statistica e... per mezzo di agenti... in ogni comunità...»

Fara ebbe l'impressione di essersi lasciato sfuggire alcune informazioni d'importanza vitale e sentì che, se avesse potuto forzare la propria attenzione e ascoltare meglio... Tentò, ma fu inutile: i suoi nervi erano troppo scossi e...

Prima che potesse parlare si senti un ticchettio, e una lamina scura e sottile scivolò sulla scrivania della donna. Lei la prese e l'esaminò. Dopo un momento, disse qualcosa in un microfono, e poco dopo altre due lamine apparvero nell'aria e si posarono sul piano della scrivania. Lei le studiò passivamente e alla fine alzò gli occhi.

«Le interesserà sapere», disse, «che suo figlio Cayle si è comprato un grado nell'esercito imperiale per cinquemila crediti».

«Eh?» fece Fara. Si alzò a mezzo dalla sedia, ma prima che potesse dire qualcosa la giovane donna riprese a parlare con fermezza. «Devo informarla che i negozi d'armi non agiscono contro gli individui. Suo figlio potrà tenersi il suo posto e il denaro che ha rubato: non ci occupiamo di correzioni morali. Questo deve venire naturalmente dall'individuo, e dalla gente in generale... e ora, mi esponga in breve il suo problema, per l'archivio e il tribunale».

Sudando, Fara si lasciò ricadere sulla sedia. La sua mente era un vortice: desiderava disperatamente altre notizie di Cayle. Cominciò: «Ma... ma cosa... come...». Si trattenne. A bassa voce raccontò quanto era accaduto. Quando ebbe finito, la donna disse: «Ora si rechi nella Sala dei Nomi. Attenda, e quando vedrà apparire il suo nome, vada direttamente nella Stanza 474. Ricordi, 474... e ora, c'è gente in fila, se non le spiace...»

Gli sorrise educatamente, e Fara si allontanò, stordito. Si voltò a mezzo per fare un'altra domanda, ma un vecchio stava già prendendo posto sulla sedia. Fara si avviò per il lungo corridoio, dirigendosi verso gli strani suoni che provenivano da una sala, più avanti.

 

Aprì la porta, e il suono lo aggredì con la violenza d'un colpo di maglio.

Era un suono così colossale, incredibile, che lui si fermò, appena oltre la soglia, ritraendosi. Sbatté le palpebre, cercando di trovare un senso nella confusione visiva che rivaleggiava con l'incredibile uragano di rumore.

Uomini, uomini, uomini dovunque; uomini a migliaia in un immenso auditorio pieno di file di sedili, uomini che camminavano irrequieti lungo le corsie, e fissavano tutti con febbrile interesse un lungo tabellone suddiviso in riquadri, ognuno dei quali era distinto da una lettera dell'alfabeto, da A, B, C fino alla Z. L'enorme tabellone con gli elenchi dei nomi occupava l'intera lunghezza dell'immensa sala.

La Sala dei Nomi, pensò tremante Fara, mentre si lasciava cadere su un sedile... e il suo nome sarebbe apparso sotto la lettera C, e poi...

Era come partecipare a una partita a poker senza limite di puntata, a guardare le carte preziose che venivano distribuite. Era come giocare in Borsa, con tutto il mondo per posta, durante un crollo delle azioni. Era sconvolgente, abbagliante, stancante, affascinante, terribile, devastante, stupendo. Era...

Era diverso da tutto ciò che esisteva sulla faccia della Terra.

Nuovi nomi apparivano sui ventisei riquadri; e gli uomini gridavano come pazzi, e alcuni svenivano, e il chiasso era devastante; il pandemonio continuava a infuriare in un unico suono continuo, incredibile.

Ogni due o tre minuti, una grande scritta lampeggiava sul tabellone, raccomandando a tutti:

 

ATTENTI ALLE VOSTRE INIZIALI

 

Fara stava attento, tremando. Ad ogni secondo gli sembrava di non poter resistere più. Avrebbe voluto urlare agli altri di tacere; avrebbe voluto alzarsi di scatto e camminare avanti e indietro, ma gli altri che lo facevano venivano rimproverati con grida isteriche, minacciati, odiati con una rabbiosa ferocia omicida.

All'improvviso, la cecità selvaggia della scena impaurì Fara. Pensò turbato: «Non voglio fare la figura dell'idiota. Me ne...»

«Clark, Fara...» lampeggiò il tabellone. «Clark, Fara...»

Con un grido che quasi gli scardinò le mascelle, Fara balzò in piedi. «Sono io!» urlò. «Io!»

Nessuno si voltò; nessuno gli prestò attenzione. Vergognandosi, attraversò la sala, verso il punto dove una fila interminabile di uomini si accalcava in un corridoio.

Il silenzio, in quel lungo corridoio, era sconvolgente quasi quanto il frastuono della sala. Era difficile concentrarsi sull'idea di un numero... 474.

 

Era completamente impossibile immaginare cosa poteva esserci... al 474.

La stanza era piccola. C'era un piccolo tavolo sobrio e due sedie. Sul tavolo c'erano sette mucchi ordinati di fascicoli, ogni mucchio d'un colore diverso. Erano allineati davanti a un grosso globo color latte che si accese di una luce tenue. Dal profondo del globo, una voce baritonale chiese: «Fara Clark?»

«Si», disse Fara.

«Prima che venga pronunciato il verdetto sul suo caso», continuò tranquillamente la voce, «voglio che lei prenda un fascicolo dal mucchio azzurro. L'elenco mostra la Quinta Banca Interplanetaria nei suoi rapporti con lei e il mondo, e le verrà spiegato a tempo debito».

L'elenco, vide Fara, era per l'appunto un elenco di nomi di società. I nomi andavano dall'A alla Z ed erano circa cinquecento. Nel fascicolo non c'erano spiegazioni; e Fara lo infilò automaticamente in tasca, mentre la voce del globo luminoso riprendeva a parlare. «È stato accertato», disse, «che la Quinta Banca Internazionale ha perpetrato ai suoi danni una truffa grossolana, e che inoltre è colpevole di sciacallaggio, raggiro, ricatto, e si è resa complice di un'associazione per delinquere.

«La banca si è messa in contatto con suo figlio Cayle, tramite un individuo appropriatamente indicato come sciacallo, cioè un dipendente incaricato di trovare giovani, uomini e donne, capaci di chiedere prestiti o spiccare assegni a vista a nome dei propri genitori o di altre vittime. Lo sciacallo ricava una commissione dell'otto per cento, sempre pagata dalla persona che fa il prestito, in questo caso suo figlio.

«La banca ha compiuto un raggiro perché i suoi agenti autorizzati le hanno fatto dolosamente credere di avere già pagato i diecimila crediti a suo figlio, mentre il pagamento è stato effettuato soltanto dopo che è stata ottenuta la sua firma.

«Il reato di ricatto è posto in essere dalla minaccia di far arrestare suo figlio per aver ottenuto falsamente un prestito; la minaccia è stata fatta quando il denaro non era stato ancora pagato. L'associazione per delinquere consiste nell'avere immediatamente ceduto la sua ipoteca alla concorrenza.

«Perciò alla banca viene inflitta un'ammenda pari al triplo della somma in questione, cioè trentaseimilatrecento crediti. Non è nel nostro interesse, Fara Clark, che lei venga a conoscenza del modo in cui è stata ottenuta tale somma. Le basti sapere che è la banca a pagare e che i negozi d'armi incassano una metà dell'ammenda. L'altra metà...»

Vi fu un plop: un pacchetto di banconote cadde sul tavolo. «È per lei», disse la voce. E Fara, con mano tremante, infilò il denaro nella tasca della giacca. Dovette compiere un intenso sforzo fisico e mentale per concentrarsi sulle parole successive:

«Con questo, non deve presumere che i suoi guai siano finiti. Per riottenere la sua officina di riparazione a Glay avrà bisogno di forza e coraggio. Sia discreto, deciso e intrepido, e non potrà fallire. Non esiti a usare la pistola da lei acquistata per difendere i suoi diritti. Le verrà spiegato il piano. Ora. passi dalla porta che le sta di fronte...»

Fara si scosse, a fatica, apri la porta e la varcò.

Entrò in un locale semibuio che ormai conosceva bene; e c'era un uomo dai capelli argentei e dai lineamenti fini, che si alzò dalla poltrona e gli andò incontro, sorridendo con aria grave.

La stupenda, fantastica, esaltante avventura si era conclusa, e Fara Clark era ritornato nel negozio d'armi di Glay.

 

Non riusciva a capacitarsi... quella grande affascinante organizzazione, insediata nel cuore stesso di una civiltà spietata, una civiltà che in poche settimane lo aveva spogliato di quanto possedeva.

Con uno sforzo di volontà, Fara arrestò quel flusso radioso di pensieri. Un'espressione apprensiva contrasse il suo viso solido. Disse: «Il... giudice...» Fara esitò nel pronunciare quel sostantivo, aggrottò di nuovo la fronte, irritato con se stesso, poi continuò: «Il giudice ha detto che per riavere la mia officina avrei dovuto...»

«Prima di discuterne», disse tranquillamente il vecchio, «voglio che lei esamini il fascicolo azzurro che ha portato con se».

«Il fascicolo?» ripeté Fara, senza capire. Impiegò un lungo momento per ricordare che aveva preso un fascicolo dal tavolo della Stanza 474.

Studiò l'elenco dei nomi delle società con perplessità crescente, notando il nome delle Officine Riparazione Automatica Motori Atomici sotto la O, e la Quinta Banca Interplanetaria fra le molte grandi banche incluse. Alla fine alzò la testa.

«Non capisco», disse. «Sono le società contro le quali avete dovuto agire?»

L'uomo dai capelli argentei scosse il capo con un sorriso cupo. «Non è questo che intendo. Le società rappresentano soltanto una frazione delle ottocentomila che figurano continuamente nei nostri registri».

Sorrise di nuovo, con amarezza. «Tutte queste società sanno che, a causa nostra, i loro profitti sulla carta non hanno alcuna relazione con quelli effettivi. Ciò che non sanno è l'entità della differenza; e poiché noi vogliamo un miglioramento generale nella morale affaristica, e non soltanto piani più astuti per sconfiggerci, preferiamo che restino nella loro ignoranza».

Tacque un istante e questa volta rivolse a Fara un'occhiata indagatrice; poi disse: «La caratteristica comune delle società di questo particolare elenco è che sono tutte interamente di proprietà dell'imperatrice Isher».

E concluse, in fretta. «Date le sue precedenti opinioni in proposito, non mi aspetto che mi creda».

Fara rimase immobile come un morto perché... credeva con convinzione indiscussa, completamente, definitivamente. La cosa sorprendente e imperdonabile era che per tutta la sua vita aveva visto tanti uomini finire nell'oblio della miseria e del disonore... e aveva dato la colpa a loro.

Fara gemette. «Ero pazzo», disse. «Tutto ciò che facevano l'imperatrice e i suoi funzionari era giusto. Non potevo ammettere amicizie o rapporti personali che non includessero anche la fede nelle cose come stavano. Immagino che se cominciassi a parlare contro l'imperatrice riceverei lo stesso trattamento».

«In nessun caso», disse deciso il vecchio, «lei dovrà dire qualcosa contro sua maestà. I negozi d'armi non tollerano tale comportamento, e non danno ulteriore aiuto a chi si dimostra così indiscreto. La ragione è che, per il momento, abbiamo raggiunto un delicato stato di pace con il governo imperiale. Desideriamo che continui così: e non intendo spiegare ulteriormente la nostra politica.

«Sono autorizzato a dire che l'ultimo grande tentativo di distruggere i negozi d'armi venne compiuto sette anni or sono, quando la gloriosa Innelda Isher aveva venticinque anni. Fu un tentativo segreto, basato su una nuova invenzione: e fallì per puro caso, perché sacrificammo un uomo che veniva da settemila anni or sono. Questo potrà sembrarle misterioso, ma non le darò spiegazioni al riguardo.

«Il periodo peggiore fu una quarantina di anni or sono quando ogni persona che veniva scoperta a ricevere il nostro aiuto veniva assassinata in un modo o nell'altro. Forse la sorprenderà sapere che suo suocero fu tra coloro che vennero assassinati a quel tempo».

«Il padre di Creel!» esclamò Fara. «Ma...»

S'interruppe. La sua mente turbinava: il sangue gli affluì alla testa con tanta violenza che per un istante non ci vide più.

«Ma,» riuscì a dire finalmente, «si disse che era scappato con un'altra donna».

«Diffondevano sempre calunnie del genere», disse il vecchio e Fara rimase in silenzio, stordito.

L'altro proseguì: «Riuscimmo a porre fine ai loro delitti uccidendo i tre uomini più importanti, escludendo la famiglia reale, che avevano dato gli ordini di quelle esecuzioni. Ma non vogliamo che simili uccisioni abbiano a ripetersi.

«Non ci interessano neppure le critiche che ci vengono rivolte perché tolleriamo tante iniquità. È importante comprendere che noi non interferiamo nell'andamento generale dell'esistenza umana. Ripariamo i torti, facciamo da barriera tra la gente e gli sfruttatori più spietati. In generale, noi aiutiamo soltanto le persone oneste; ciò non significa che non diamo assistenza ai meno scrupolosi, ma solo in quanto vendiamo loro le armi... e questo è già un grande aiuto, e una delle ragioni per cui il governo poggia quasi esclusivamente il suo potere sul raggiro economico.

«Nei quattromila anni trascorsi da quando il genio di Walter S. Delany inventò il processo vibratorio che rese possibili i negozi d'armi, e stabili i principii fondamentali della filosofia politica dei negozi stessi, abbiamo visto la marea del governo ondeggiare avanti e indietro tra la democrazia sotto una monarchia dai poteri limitati e la tirannia più completa. E abbiamo scoperto una cosa:

«La gente ha sempre il tipo di governo che vuole. Quando vuole cambiare, deve cambiarlo. Come sempre, noi rimaniamo il nucleo incorruttibile... e l'intendo alla lettera; abbiamo una macchina psicologica che non mente mai nel qualificare il carattere di un uomo... ripeto, un nucleo incorruttibile d'idealismo umano, impegnato ad alleviare i mali che insorgono inevitabilmente sotto qualunque forma di governo.

«Ma ora... il suo problema. In effetti è molto semplice. Lei deve lottare, come tutti gli uomini hanno lottato fin dal tempo dei tempi per ciò che avevano di più prezioso, i loro giusti diritti. Come sa, quelli delle Riparazioni Automatiche hanno portato via tutti i suoi macchinari e i suoi utensili un'ora dopo aver sequestrato l'officina. Questo materiale è stato portato a Ferd, e quindi spedito a un grosso magazzino sulla costa.

«Noi l'abbiamo recuperato e con i nostri speciali mezzi di trasporto abbiamo riportato le macchine nella sua officina. Quindi lei andrà là e...»

Fara ascoltò le istruzioni con crescente decisione e alla fine annuì, stringendo i denti.

«Può contare su di me», disse seccamente. «Sono sempre stato ostinato; e anche se ho cambiato opinione, non ho cambiato carattere».

 

Uscire fu come ritornare dalla vita... alla morte; dalla speranza... alla realtà.

Fara si avviò per le strade silenziose di Glay, nel cuore della notte. Per la prima volta pensò che il Centro Informazioni dei negozi d'armi doveva essere situato nell'altro emisfero, perché là era giorno chiaro.

L'immagine svanì come se non fosse mai esistita e Fara Clark riacquisì la consapevolezza quasi preternaturale del villaggio di Glay che dormiva intorno a lui. Silenzioso, pacifico... e tuttavia, pensò, dominato dalla bruttura dell'iniquità trionfante.

Pensò: Il diritto di acquistare armi... e il cuore gli balzò in gola, gli occhi gli si inumidirono.

Si asciugò le lacrime con il dorso della mano, pensò al padre di Creel, morto da tanto tempo, e continuò a camminare, senza vergognarsi. Le lacrime erano uno sfogo per la collera.

L'officina era sempre la stessa, ma il robusto lucchetto metallico cedette alla potenza sfolgorante e sovrannaturale della pistola. Un minuscolo guizzo di fuoco; il metallo si dissolse... e Fara entrò.

Era buio, troppo buio per vedere, ma Fara non accese subito le luci. Andò a tentoni ai comandi, regolò le finestre sulla vibrazione buia, e poi accese le luci.

Deglutì, sopraffatto dal sollievo. Perché i macchinari, gli utensili preziosi che erano stati portati via poche ore dopo l'arrivo dell'ufficiale giudiziario, erano di nuovo lì, pronti per venire usati.

Tremando per la pressione emotiva, Fara chiamò Creel al telestato. Lei impiegò un po' di tempo per arrivare: era in vestaglia. Quando vide chi chiamava, impallidì.

«Fara, oh, Fara, credevo...»

Fara l'interruppe bruscamente: «Creel, sono stato, nel negozio d'armi. Voglio che tu faccia una cosa: vai subito da tua madre. Io resterò qui giorno e notte, fino a quando sarà ben chiaro che resto... più tardi andrò a casa a prendere qualcosa da mangiare e qualche indumento, ma voglio che tu te ne vada prima. È chiaro?»

Il colore stava riaffluendo sul bel volto magro di Creel. Lei disse: «Non disturbarti a venire a casa, Fara. Farò io tutto il necessario. Caricherò tutto quel che ti occorre sull'autopiano, incluso un letto pieghevole. Dormiremo nel retro dell'officina».

 

Il mattino spuntò, pallido, ma erano le dieci quando un'ombra oscurò l'ingresso. Entrò l'agente Jor. con l'aria di vergognarsi molto.

«Ho qui l'ordine di arrestarla», disse.

«Riferisca a quelli che l'hanno mandato», rispose deciso Fara, «che mi sono opposto all'arresto... con una pistola».

L'atto segui le parole con tanta rapidità che Jor sbatté le palpebre. Restò immobile per un momento, a fissare con aria intontita la lucente pistola magica. Poi: «Ho qui un mandato che le ingiunge di comparire davanti alla corte suprema di Ferd questo pomeriggio. L'accetta?»

«Certamente».

«Allora ci andrà?»

«Manderò il mio avvocato», disse Fara. «Butti il mandato sul pavimento. Riferisca che l'ho ricevuto».

L'uomo del negozio d'armi aveva detto: «Non ridicolizzi a parole nessuna misura legale presa dalle autorità imperiali. Si limiti a disobbedire».

Jor uscì: sembrava sollevato. Passò un'ora prima che il sindaco Mel Dale entrasse con aria pomposa.

«Stia a sentire, Fara Clark», muggì dalla soglia. «Non può sperare di cavarsela impunemente. È una sfida alla legge».

Fara rimase in silenzio mentre il primo cittadino di Glay avanzava. Era sorprendente, quasi sconcertante che il sindaco Dale rischiasse la sua preziosa persona. La perplessità finì quando il sindaco disse sottovoce: «Buon lavoro, Fara; sapevo che aveva la stoffa. Adesso ho dovuto gridare perché fuori c'è una folla. Mi risponda a tono, d'accordo? Scambiamoci insulti a gran voce. Ma prima un avvertimento: il direttore delle Officine Riparazioni Automatiche sta venendo qui con due guardie del corpo...»

Scosso, Fara guardò il sindaco che usciva. La crisi era imminente. Si fece forza, pensò: Che vengano, che vengano...

Fu più facile di quanto avesse pensato... perché gli uomini che entrarono nell'officina impallidirono appena videro la pistola nella fondina. Tuttavia, vi fu una violenta tirata, che alla fine si ridusse a questo:

«Stia a sentire», fece l'uomo, «abbiamo la sua ipoteca per dodicimilacento crediti. Non negherà che ci deve questo denaro».

«Riscatto l'ipoteca», disse Fara con voce impassibile, «esattamente per la metà, e non un credito di più».

Il giovanotto dalla mascella volitiva lo fissò a lungo. «Accettiamo», dichiarò alla fine.

Fara disse: «Ho qui pronto l'accordo...»

Il suo primo cliente fu Lan Harris, lo spilorcio. Fara fissò il vecchio, sospettosamente, e per la prima volta intuì come mai il negozio d'armi era finito sul terreno di Harris... per un accordo preventivo.

Un'ora dopo che Harris se ne fu andato, la madre di Creel entrò a passo di carica nell'officina e chiuse la porta.

«Bene», disse. «Ce l'hai fatta, eh? Ottimo lavoro. Scusami se mi sono comportata duramente quando ti sei rivolto a me, ma noi sostenitori dei negozi d'armi non possiamo permetterci di correre rischi per coloro che non sono dalla nostra parte.

«Ma non importa. Sono venuta per ricondurre Creel a casa. L'importante è che tutto ritorni alla normalità al più presto possibile».

Era finita; incredibilmente, era finita. Per due volte, mentre tornava a casa quella sera, Fara si fermò di colpo, chiedendosi se non era stato un sogno. L'aria era inebriante come il vino. Il piccolo mondo di Glay si estendeva davanti a lui, grazioso e verdeggiante, un tranquillo paradiso dove il tempo s'era fermato.

 

Mimesi

Mimic

di Donald A. Wollheim

Astonishing Stories, dicembre

 

Sebbene sia noto soprattutto come esperto ed editore, Donald A. Wollheim ha scritto una ventina di romanzi di fantascienza e un volume di racconti (Two Dozen Dragon Eggs, 1969, Due dozzine d'uova di drago); molti di questi testi sono per ragazzi. Wollheim, che fu una delle figure più importanti del fandom dei primi tempi e uno dei primi Futuriani, ha lavorato per la Avon Books e poi ha diretto le pubblicazioni fantascientifiche della Ace Books, prima di creare la DAW Books nel 1971. È anche un noto antologista: la sua Annual World's Best SF (già World's Best SF) ha sempre mantenuto un livello molto elevato.

«Mimesi» tratta un importante tema fantascientifico che più tardi sarebbe stato affrontato da autori diversi come Mark Clifton e Philip K. Dick ed è (forse) il più bel racconto di fantascienza di Don Wollheim.

 

(Don Wollheim era il fan per eccellenza della science fiction, al tempo in cui il «movimento dei fan» era nella fase classica. Era eloquente, tagliente e ostinato, e la carta su cui scriveva le sue lettere di solito scottava. Spesso ho pensato che, se non avesse esaurito le sue doti di scrittore mettendo sotto accusa gli altri fan, sarebbe diventato uno straordinario autore fantascientifico. «Mimesi», ad esempio, mi è rimasto impresso per ben quarant'anni, e ho raccomandato di includerlo anche se Don è l'editore di questa serie, e noi potremmo venire accusati di cercare di ingraziarcelo. Sarebbe un'accusa ridicola, perché è impossibile ingraziarsi l'irascibile Don. - I.A.)

 

Sono trascorsi meno di cinquecento anni da quando è stata scoperta una metà del mondo. Sono passati meno di duecento anni dalla scoperta dell'ultimo continente. Le scienze della chimica e della fisica risalgono a meno di un secolo. La scienza dell'aviazione è nata quarant'anni fa. La scienza atomica sta nascendo ora.

Eppure noi crediamo di sapere tante cose.

Sappiamo poco o niente. Alcune delle cose più sorprendenti ci sono sconosciute. Quando vengono scoperte, possono sconvolgerci.

Andiamo in cerca di segreti sulle isole lontane del Pacifico e sulla banchisa del nord, mentre sotto il nostro naso, accanto a noi, ogni giorno può aggirarsi l'ignoto. È una realtà bizzarra della natura: ciò che è in piena vista spesso è ben nascosto.

Ho sempre saputo dell'uomo dal mantello nero. Fin da quando ero bambino ha sempre vissuto nella mia strada, e le sue eccentricità sono così note che a parlarne sono soltanto i visitatori occasionali. Qui, nel cuore della città più grande del mondo, nella brulicante New York, le cose più strane ed eccentriche possono prosperare indisturbate.

Da bambini ci divertivamo a prendere in giro l'uomo in nero quando dava prova della sua paura delle donne. Attendevamo, con la crudeltà dei bambini, quei momenti; cercavamo di indurlo ad andare in collera. Ma lui ci ignorava completamente e presto smettemmo di badare a lui, come facevano i nostri genitori.

Lo vedevamo soltanto due volte al giorno. Una volta di prima mattina, quando vedevamo la sua figura alta un metro e ottanta uscire dal portone buio e sporco del suo caseggiato, in fondo alla strada, e si avviava verso la ferrovia soprelevata per andare al lavoro... e lo rivedevamo quando rientrava la sera. Era sempre coperto da un lungo mantello nero che gli arrivava alle caviglie, e portava un cappellaccio nero a larghe tese calcato sulla faccia. Sembrava uscito da una strana leggenda del vecchio continente. Ma non faceva male a nessuno e non prestava attenzione a nessuno.

A nessuno... eccettuate forse le donne.

Quando una donna gli tagliava la strada, si fermava di colpo e restava immobile. Vedevamo che chiudeva gli occhi fino a quando la donna era passata. Allora riapriva quei grandi occhi d'un celeste acquoso e proseguiva come se non fosse successo niente.

A quanto si sapeva, non parlava mai con le donne. Acquistava qualcosa da mangiare, magari una volta la settimana, nel negozio di Antonio... ma solo quando non c'erano altri clienti. Una volta, Antonio disse che non parlava mai; si limitava a indicare quel che voleva e pagava con il denaro che estraeva dall'interno del mantello. Antonio non aveva simpatia per lui, ma l'uomo in nero non gli aveva mai dato nessun fastidio.

Ora che ci penso, non dava mai fastidio a nessuno.

Ci eravamo abituati a lui. Crescevamo per la strada; lo vedevamo qualche volta mentre tornava a casa e rientrava nel portone buio.

Non aveva mai visite, non parlava mai con nessuno. E una volta aveva costruito qualcosa di metallico, in camera sua.

Una volta, anni prima, s'era portato a casa alcune lastre piatte di metallo, latta o ferro, e per parecchi giorni lo avevamo sentito martellare nella sua stanza. Ma poi aveva smesso, e quella storia finiva lì.

Non so dove lavorasse, e non l'ho mai scoperto. Il denaro non gli mancava, perché si sapeva che pagava regolarmente l'affitto, quando il portinaio glielo chiedeva.

Beh, ci sono tipi così che abitano nelle grandi città, e nessuno conosce la storia della loro vita fino a quando muoiono. O fino a quando succede qualcosa di strano.

Io diventai grande, andai all'università, studiai.

Finalmente, trovai un impiego come assistente del curatore di un museo. Passavo le giornate montando scarabei sulle tavolette e classificando animali impagliati e piante conservate e centinaia e centinaia di insetti arrivati da ogni parte del mondo.

La natura è strana, scoprii. Lo impari chiaramente, quando lavori in un museo. Capisci che la natura usa l'arte della mimesi. Ci sono gli insetti che somigliano a una foglia o a un ramo d'albero. Esattamente.

La natura è strana e perfetta, in queste cose. C'è una falena dell'America Centrale identica a una vespa. Ha persino un falso pungiglione fatto di peli, che si attorce e si arriccia esattamente come il pungiglione di una vespa. Ha la stessa colorazione e, sebbene abbia il corpo molle e non corazzato come quello delle vespe, sembra lucido e corazzato. Vola addirittura di giorno, come le vespe, e non di notte come le altre falene. Si muove come una vespa. Chissà come, sa di essere indifesa e sa che può sopravvivere solo fingendo di essere pericolosa per gli altri insetti come lo sono le vespe.

Scoprii le formiche amazzoni, e i loro strani imitatori.

Le formiche amazzoni viaggiano in enormi colonne di migliaia e centinaia di migliaia di esemplari. Si muovono in una fiumana larga parecchi metri e divorano tutto quel che trovano lungo il percorso. Nella giungla, tutti le temono. Vespe, api, serpenti, le altre formiche, uccelli, lucertole, coleotteri... persino gli uomini fuggono per non venire divorati.

Ma in mezzo alle formiche amazzoni viaggiano anche molti altri esseri... esseri che non sono formiche, e che le amazzoni ucciderebbero, se lo sapessero. Ma non lo sanno perché gli altri esseri sono camuffati. Alcuni sono coleotteri che sembrano formiche. Hanno falsi segni come i toraci delle formiche e corrono imitando i movimenti delle formiche. Ce n'è persino uno così lungo che sembra tre formiche in fila indiana! Si muove così in fretta che le formiche vere non lo degnano mai di una seconda occhiata.

Ci sono deboli bruchi che sembrano grossi scarabei corazzati. Ci sono bestie di ogni genere che hanno l'aspetto di animali pericolosi. Gli animali che sanno combattere e uccidere non hanno nemici. Le formiche amazzoni e le vespe, gli squali, il falco e i felini. Quindi ci sono molti esseri deboli che cercano di nascondersi in mezzo a loro... di imitarli.

E l'uomo è l'uccisore più terribile, il cacciatore più grande. Il mondo della natura riconosce nell'uomo il padrone irresistibile. Il ruggito del suo fucile, l'astuzia della sua trappola, la forza e l'agilità del suo braccio lo pongono al di sopra di tutti gli altri.

E l'uomo dovrebbe venir trattato dalla natura diversamente dagli altri esseri dominanti, le formiche amazzoni e le vespe?

Come capita spesso, fu per un puro caso che mi trovassi per la strada quella mattina prestissimo quando il portinaio uscì correndo invocando aiuto. Avevo lavorato tutta la notte a montare i nuovi esemplari.

Il poliziotto di ronda e io fummo le uniche persone, oltre al portinaio, a vedere quello che trovammo nelle due stanze luride occupate dallo sconosciuto dal mantello nero.

Il portinaio spiegò — mentre io e il poliziotto salivamo di corsa le strette scale malconce — di essere stato svegliato da tonfi pesanti e da grida stridule che venivano dall'appartamento dello sconosciuto. Era uscito nel corridoio, per ascoltare.

Quando arrivammo noi, c'era silenzio. Una luce fioca filtrava sotto la porta. Il poliziotto bussò, ma nessuno rispose. Accostò l'orecchio all'uscio e io feci altrettanto. Sentimmo un lieve fruscio... un fruscio lento e continuo, come di fogli di carta agitati dalla brezza.

Il poliziotto bussò di nuovo; e anche questa volta non ebbe risposta.

Poi, insieme, prendemmo a spallate la porta. Dopo due colpi, la vecchia serratura marcia cedette. Entrammo.

La stanza era sporca, il pavimento era coperto da pezzi di carta, detriti e rifiuti. Non era ammobiliata, e questo mi sembrò strano.

Nell'angolo c'era una cassa metallica, di circa un metro e venti di lato, tenuta insieme da viti e corde. C'era un coperchio, in alto: era chiuso e fissato con una specie di sigillo di cera.

Lo sconosciuto dal mantello nero giaceva in mezzo alla stanza... morto.

Portava ancora il mantello. Il cappellaccio floscio era sul pavimento, poco lontano. Il lieve fruscio veniva dall'interno della cassa.

Girammo lo sconosciuto e gli togliemmo il mantello. Per qualche istante non notammo niente di strano e poi, poco a poco, orribilmente, ci accorgemmo che qualcosa non andava.

I capelli erano corti, bruni, ricciuti, ritti sulla testa. Gli occhi erano aperti, sbarrati. Notai che non aveva sopracciglia, soltanto una curiosa linea scura sopra gli occhi.

Fu allora che mi accorsi che non aveva naso. Ma nessuno l'aveva mai notato. La pelle era stranamente screziata. Al posto del naso c'erano ombre scure che potevano sembrare un naso, se non si guardava attentamente. Come l'opera di un artista molto abile, in un quadro.

La bocca era al posto giusto, e leggermente aperta... ma non aveva denti. Il collo era esilissimo.

L'abito... non era un abito. Faceva parte di lui. Era il suo corpo.

Quello che avevamo creduto una giacca era un paio di elitre nere, enormi, come quelle di uno scarafaggio. Aveva un torace da insetto, ma le elitre lo coprivano ed era impossibile notarlo, quando portava il mantello. Il corpo era rigonfio, e si affusolava, dividendosi nelle gambe sottili. Le braccia uscivano dalla «giacca». Aveva un minuscolo paio di braccia secondarie ripiegate contro il petto. C'era un netto foro rotondo che gli trapassava il petto, sopra le braccia, e ne colava ancora un liquido acquoso.

Il portinaio fuggi via balbettando. L'agente era pallido, ma deciso a fare il suo dovere. Lo sentii mormorare sottovoce una sfilza interminabile di avemaria.

La parte inferiore del torace — l'addome — era molto allungato, simile a quello di un insetto. Adesso era accartocciato come il relitto della fusoliera di un aereo.

Ricordai l'aspetto di una vespa femmina che ha appena deposto le uova... l'addome aveva lo stesso aspetto svuotato.

Il trauma fu di quelli che lasciano perfettamente lucidi. La mente lo rifiuta, e solo ripensandoci si sente un brivido d'orrore.

Il fruscio continuava a provenire dalla cassa. Lo feci notare al pallidissimo agente, e andammo a vedere. Lui prese lo sfollagente e staccò il sigillo di cera.

Sollevammo il coperchio.

Fummo assaliti da un'ondata di vapore fetido. Arretrammo, barcollando, mentre uno sciame di esseri volanti usciva dalla grande cassa di ferro. La finestra era aperta, e volarono via, nella prima luce dell'alba.

Dovevano essere dozzine. Erano lunghi cinque, sette centimetri, e avevano grandi ali trasparenti da coleottero. Sembravano minuscoli uomini, stranamente terribili nel volo... vestiti di abiti neri, con le facce inespressive e gli acquosi occhi celesti. E volavano con le ali trasparenti che uscivano sotto le nere elitre da scarafaggio.

Corsi alla finestra, affascinato, quasi ipnotizzato. L'orrore non era penetrato subito nella mia mente. Adesso, mi sento pervadere da crisi di terrore, quando la mia mente cerca di ricostruire la scena. Era tutto così inaspettato.

Sapevamo delle formiche amazzoni e dei loro imitatori, ma non avevamo mai pensato che anche noi eravamo un po' come le formiche amazzoni. Sapevamo degli insetti stecco e non avevamo mai pensato che potevano esservi altri che si camuffano per ingannare, non gli altri animali, ma l'animale supremo... l'uomo.

Poi, trovammo alcune ossa in fondo alla cassa di ferro. Ma non riuscimmo a identificarle. Forse non ci impegnammo troppo. Potevano essere umane...

Immagino che lo sconosciuto dal mantello nero non avesse paura delle donne ma, piuttosto, ne diffidasse. Le donne notano gli uomini, forse, più attentamente degli altri uomini. Le donne avrebbero potuto sospettare più in fretta l'inumanità, l'inganno. E forse c'era anche una sfumatura d'istintiva gelosia femminile. Lo sconosciuto era camuffato da uomo, ma era senza dubbio una femmina. Le cose dentro la cassa erano i suoi piccoli.

Ma è l'altra cosa che vidi quando accorsi alla finestra, a sconvolgermi di più. Il poliziotto non la vide. La vidi soltanto io, e solo per un istante.

La natura crea inganni ad ogni angolo. L'evoluzione crea un essere per ogni nicchia reperibile, anche se inverosimile.

Quando andai alla finestra, vidi il nugolo di cose volanti che saliva nel cielo e si allontanava nelle lontananze purpuree. Stava spuntando l'aurora e i primi raggi del sole toccavano i tetti delle case.

Sconvolto, mi affacciai da quella stanza al quarto piano e guardai sui tetti dei caseggiati più bassi. Comignoli, muri, e corde da bucato formavano lo scenario sul quale passava quella piccola massa di orrori.

E poi vidi un comignolo, a meno di dieci metri di distanza, sul tetto più vicino. Era tozzo, di mattoni rossi, e aveva due estremità nere delle canne fumarie che terminavano alla sommità. Lo vidi vibrare all'improvviso, stranamente. E vidi che la superficie di mattoni rossi sembrava staccarsi, e le nere aperture delle canne fumarie diventavano improvvisamente bianche.

Vidi due grandi occhi che fissavano il cielo.

Una grande cosa dalle ali piatte si staccò silenziosamente dalla superficie del comignolo vero e sfrecciò all'inseguimento del nugolo di cose volanti.

Li seguii con gli occhi fino a quando si persero tutti nel cielo.

 

FINE